Recuperare l’antico carcere borbonico e rilanciare le isole di Ventotene e Santo Stefano con finalità culturali e formative, con un occhio di riguardo alle giovani generazioni e un orizzonte europeo. L’ambizioso progetto nazionale è affidato alla responsabilità della commissaria di governo, l’ex eurodeputata Silvia Costa. Ma qual è oggi il valore storico e politico di queste due isole? Cosa dicono agli italiani del ventunesimo secolo? Ne parliamo con Piero Graglia, docente di Storia dell’integrazione europea e Storia delle integrazioni regionali all’Università degli Studi di Milano.
Professore, cosa rappresentano – storicamente – il carcere di Santo Stefano e l’isola di Ventotene per l’Italia e per l’Europa?
Rappresentano due luoghi di dolore e sopraffazione. Santo Stefano venne costruito dai Borbone per tenere reclusi nemici politici e pericolosi delinquenti comuni; Ventotene, un miglio marino da Santo Stefano, ha una lunghissima storia come luogo di confino sin da quando Ottaviano Augusto la scelse come residenza obbligata per la figlia Giulia, pericolosa sia politicamente sia per i suoi comportamenti pubblici. Il fascismo, secoli dopo, scelse le isole come colonie di confino per gli oppositori più pericolosi: Ustica, Lipari, Tremiti, Ponza e Ventotene. Alla fine rimase solo Ventotene, essendo chiuse tutte le altre colonie di confino soprattutto per le proteste delle popolazioni locali. A Ventotene la popolazione era troppo scarsa per avere un significativo peso “politico” e subì quindi la triste funzione di prigione a cielo aperto. Il “sistema” delle due isole di Ventotene e Santo Stefano rappresenta sia la prova dell’abiezione della detenzione politica e del confino sia una memoria da preservare a tutti i costi. Per questo motivo abbiamo creato tre anni fa, con la collaborazione e il supporto del Comune di Ventotene, il “Centro di ricerca e documentazione sulla detenzione politica e il confino” che, con l’aiuto dell’università di Milano e di altre università italiane ed europee, intende studiare sia la storia di questa realtà unica nel panorama italiano, sia curare la preservazione del patrimonio archivistico esistente con un’azione che è partita sin dal 2016. L’Europa, che si definisce “spazio di libertà sicurezza e giustizia” deve considerare Ventotene e Santo Stefano alla pari di altri luoghi di memoria dolorosa per il continente. Purtroppo ricordare non è mai un processo asettico, ma coinvolge passioni, esperienze, consapevolezze, e spesso pone domande sulla propria storia alle quali bisogna provare a dare risposte.
A Ventotene si collocano le fondamenta del pensiero federalista europeo. Come nacque, quali gli sviluppi successivi?
Non fu un caso che l’idea federalista europea nascesse a Ventotene: nel momento in cui il fascismo concentrò sull’isola la crema dei suoi oppositori, l’isola diventò un enorme laboratorio politico, luogo di elaborazione ideale e di studio. Le persone coinvolte nelle discussioni che portarono al manifesto di Ventotene si contano sulle dita di una mano: Ernesto Rossi prima di tutto, che fu forse il principale ideatore della stesura del documento insieme ad Altiero Spinelli, classe 1907 e di 10 anni più giovane di Rossi; e poi il filosofo socialista Eugenio Colorni e sua moglie Ursula Hirschmann che già aveva una notevole esperienza di lavoro politico come emigrata anti-nazista, in Francia dal 1934. Anche se gli estensori materiali del documento furono solo Rossi e Spinelli, lo scritto nacque da discussioni accese tra tutti e quattro coinvolgendo anche altri confinati. I due autori si basarono su alcune idee tratte dagli scritti giovanili di Luigi Einaudi, che nel 1918 aveva criticato il progetto wilsoniano della Società delle Nazioni proponendone la trasformazione in Federazione europea, ma soprattutto lessero un’ampia letteratura maturata durante gli anni ‘30 in Gran Bretagna (il gruppo di Federal Union composto da Lionel Robbins, Lord Beveridge, Lord Lothian e altri) che avanzava l’idea degli Stati Uniti d’Europa come unica soluzione ai continui conflitti continentali. Il documento che venne fuori da queste discussioni, visionario ma molto lucido, presentava l’alternativa agli europei: o federazione europea o nuove guerre, ponendo un nuovo discrimine tra progressisti e conservatori sulla base dell’adesione o meno all’idea federalista.
Cosa accadde poi?
Lo scritto prese il volo dall’isola tra il 1941 e il 1943 verso il continente, cominciando a essere discusso dalle forze politiche antifasciste, in Italia, in Francia, in Svizzera, in Olanda. Tuttavia, parlare di europeismo non vuol dire parlare di federalismo: il federalismo è un progetto politico preciso, istituzionalmente definito e progettato; l’europeismo è un sentimento. Il merito dei federalisti fu di ispirare ai leader moderati degli anni ‘50 un modo per dare un senso e un valore al loro europeismo, si trattasse del cosmopolitismo di De Gasperi o dell’europeismo pacificatore nei rapporti con la Germania di Robert Schuman, o ancora dell’europeismo di Adenauer visto come l’unico modo per permettere alla Germania di risollevarsi dalle pesanti responsabilità del conflitto. Per questo motivo troviamo nella Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950, unico caso nei documenti fondativi delle prime comunità, un chiaro e preciso riferimento alla necessità della Federazione europea, riferimento che successivamente scomparve dalla retorica dell’europeismo governativo.
È ancora tempo di federalismo europeo?
Beh, la scomparsa dell’espressione “Federazione europea” dall’europeismo governativo non significa che questa prospettiva debba essere abbandonata in cambio di… cosa? Gli Stati Uniti d’Europa che possono essere creati sulla base dell’esperienza storica dell’Unione europea – esperienza unica di cooperazione e collaborazione che partendo da una matrice di ricostruzione economica è arrivata a toccare anche altri ambiti politici e istituzionali – non sono un sogno a occhi aperti di qualche filosofo, come Kant nel 1700, bensì sono la necessaria prospettiva di una società e di una cultura “europee” che non può correre il rischio di tornare a modelli di nazionalizzazione e di separazione costante dei propri costumi e comportamenti. Non si può essere nazionalisti (o se preferisce il termine molto in voga – che eppure 5 anni fa non esisteva nella lingua italiana – sovranista) e nello stesso tempo europeisti. Non si può essere al servizio dell’idea di un’Europa chiusa nei propri egoismi nazionalistici (“prima gli italiani”, la “grande Francia”, la “global Britain”) e nello stesso tempo promuovere modelli di integrazione sovranazionale. Ma soprattutto bisogna sgombrare il campo – e la politica deve ancora crescere riguardo a questa consapevolezza – che l’integrazione sovranazionale non significa la morte della nazione.
Può spiegare meglio?
Voglio dire che l’identità nazionale non vive solo in quanto contenuta all’interno di un contenitore che chiamiamo Stato, né l’esistenza di uno Stato sovrano è la naturale evoluzione di un sentimento di appartenenza nazionale. In altre parole, si può restare italiani, francesi, tedeschi, spagnoli anche se determinate funzioni e determinati poteri nazionali vengono assunti in maniera democratica e condivisa da un organismo sovranazionale. Noi siamo fortunati perché questo organismo esiste già ed è stato costruito sulla base di una concreta esperienza storica che i “sovranisti” fanno finta di non vedere: si chiama Unione europea e potrebbe avere maggiori funzioni e competenze se solo i paladini della “Europa delle nazioni” accettassero di darle maggiori competenze in quegli ambiti che i singoli Stati membri non possono più gestire. Ogni volta che si critica l’Unione perché non fa la sua parte per l’emigrazione o per un intervento efficace nel campo della prevenzione sanitaria non bisogna dimenticare che chi critica spesso è anche chi ha negato e impedito che l’Unione europea assumesse queste competenze, in nome della sacralità dello “stato nazionale sovrano”. Chiediamo a Orban se crede davvero che l’Ungheria, la più grande nazione europea nella sua definizione, potrebbe essere tale se restasse isolata e senza i generosi aiuti economici e le sovvenzioni che tutti gli altri popoli europei le forniscono tramite il sistema dell’Ue.
Sull’isola pontina ci sono lavori in corso e si parla del progetto Campus d’Europa. Secondo lei è un buon “investimento”?
Guardi, visto che il mio lavoro è quello del ricercatore e del docente universitario sarei in contraddizione se dicessi che una struttura di accoglienza per giovani ricercatori e studiosi – di qualsiasi Paese – non è un buon investimento. Ovviamente questo non è garanzia della qualità della ricerca che viene condotta, quella viene valutata in altri modi, però Ventotene e Santo Stefano hanno un carisma immateriale indubitabile. Faccio un esempio personale se mi permette.
Prego. La ascolto.
Quando scrivevo la biografia di Altiero Spinelli che mi ha preso circa 12 anni di vita, passai tre mesi sull’isola di Ventotene per impostare il capitolo sul confino e sulla nascita del manifesto. Non scelsi i mesi estivi, quelli più affollati, ma scelsi quelli autunnali e invernali da ottobre a dicembre, per cercare gli odori, i suoni, i silenzi. Glielo dico perché quando si fa un lavoro di ricerca non c’è solo bisogno di strutture, scrivanie, computer e archivi, ma anche di calma, tranquillità e suggestioni. Io credo che il commissario di governo Silvia Costa, che sta gestendo con attenzione e sensibilità il progetto di recupero del sistema di Santo Stefano e Ventotene abbia colto questo elemento fondamentale, e stia perseguendo il progetto con serietà e cura. Poi, ovviamente, se parliamo dei metodi di gestione di un futuro progetto di questo tipo, allora il tema si allarga molto e coinvolge altri enti che devono affiancare il commissario di governo incaricato. Ma io penso che questa volta il governo italiano abbia avviato un’azione valida e che può diventare, sì, un buon investimento per la cultura italiana ed europea e per tutti coloro che sono interessati alla preservazione della memoria della storia, non solo nazionale ma continentale.