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Regno Unito. La pandemia raccontata dal medico: “Abbiamo lasciato morire dei pazienti”

Chris Harvey, specialista in malattie respiratorie acute, lavora al Glenfield Hospital di Leicester in uno dei reparti di rianimazione in prima linea nella lotta contro il coronavirus. Al Sir confida 12 mesi di lotta al Covid, dai morti in corsia fino alla situazione attuale fortemente migliorata grazie a una efficace campagna vaccinale. L'isola è stata duramente colpita dalla pandemia e la popolazione ne ha fatto le spese. Oggi mette in guardia: "pensare di abbandonare mascherine, distanza e gel e sarebbe un vero disastro"

Centro per le vaccinazioni a Londra. Sotto, l'abbazia di Westminster apre le porte per la campagna vaccinale (foto ANSA/SIR)

“Era la prima settimana di gennaio di un anno fa e, come ogni inverno, Public Health England, l’ente responsabile della sanità pubblica, ci aveva riunito per avvertirci di un nuovo virus, uno dei tanti con i quali ci ritroviamo a fare i conti ogni anno. Nulla di nuovo, nulla di strano o preoccupante”. Così racconta l’inizio della “sua” pandemia il professor Chris Harvey (nella foto), 48 anni, specialista in malattie respiratorie acute, in uno dei reparti di rianimazione in prima linea nella lotta contro il Covid. Al Glenfield Hospital di Leicester, cittadina nel centro d’Inghilterra, Harvey usa l’ossigenazione extracorporea a membrana per salvare i casi più gravi, pazienti dai polmoni quasi distrutti. Oggi ricorda gli ultimi dodici mesi come “i più duri della mia carriera”, “quelli nei quali ho dovuto lavorare il doppio delle ore, sedici al giorno, crollando di sonno davanti al piatto della cena alla sera, prima che mia moglie mi mandasse a letto”, “quelli nei quali ho dovuto chiedere ai parenti dei miei pazienti di stare alla larga mentre i loro cari morivano”.
E alla domanda se attualmente, nel Regno Unito, dove i casi stanno scendendo con una rapidità impressionante, si stia uscendo davvero dalla crisi, il medico incrocia le dita di entrambe le mani in segno di scaramanzia e gli occhi scuri, sopra la mascherina, lanciano la disperata richiesta che quella speranza, che coltiva ogni giorno, possa diventare realtà. Per lasciarsi alle spalle un incubo. “126.284 vittime. Se me l’avessero detto un anno fa non ci avrei creduto”, dice ancora. “Siamo passati da quattro letti a trenta”, racconta ancora lo specialista. “Prima del Covid avevamo un infermiere ogni paziente. Durante la pandemia siamo arrivati a uno ogni quattro, aiutato da chiunque fosse disponibile, dentisti, oftalmologi, ortopedici, studenti di medicina, dottori neolaureati. È stato possibile perché il lavoro, in tutti gli altri reparti, era stato ridotto al minimo”.

Qual è stata l’esperienza più difficile in questi mesi?
“Beds are tight. Beds are tight”. “Mancano i letti. Mancano i letti”. Questa frase, questa pressione, mi hanno accompagnato per mesi. Sapere che un paziente per il quale, ormai, non c’era più nulla da fare, occupava il letto di un altro che aveva una buona possibilità di guarire e doverlo lasciar morire. Non poter stare vicino ai parenti nel loro difficile viaggio. Doverli escludere dall’ospedale. La comunicazione, infatti, era stata affidata a un gruppo di dottori in pensione. E fraintendimenti erano possibili. Non poter salvare pazienti che, in tempi normali, avrei riportato alla vita. Prima della pandemia accettavamo chiunque avesse tra i cinquanta e i sessant’anni. Se sei più anziano le nostre cure non funzionano. Con Covid abbiamo deciso che agli ultracinquantenni dovevamo dire di no perché le loro possibilità di farcela erano ridotte al minimo. Prima della pandemia avremmo accettato fino a tre pazienti da altri ospedali ogni settimana. Al picco le richieste sono state per quindici o venti al giorno e ne potevamo curare soltanto uno o due. È stato difficile, molto stressante.

E che cosa l’ha aiutata a tirare avanti?
Il forte legame con i miei colleghi. Sapevo che c’era sempre qualcuno con cui potevo parlare per condividere i miei dubbi e prendere una decisione insieme. Ci sono stati anche momenti belli. Ne ricordo uno. Avevamo in cura un paziente ammalatissimo, sul punto di morire, e, due settimane prima di Natale, una domenica, abbiamo deciso di lasciargli incontrare, per l’ultima volta, i figli che avevano appena due anni e sei mesi. All’aperto, fuori dall’ospedale, sono arrivati anche la moglie e il fratello e la sorella. Ho visto il cambiamento sul suo viso. Prima pallido, esangue. Poi, dopo aver rivisto i suoi cari, la faccia si è rianimata. Ha ritrovato il motivo per vivere. E, da quel momento, ha migliorato, in continuazione, fino a che l’abbiamo dimesso.

Ha lavorato più ore in questo anno?
Il doppio. Di solito comincio alle 8.30 e stacco alle 16.30 e poi sono disponibile per delle chiamate. Durante la pandemia ho lavorato per circa sedici ore e dovevo essere presente in ospedale per un lavoro che era intenso dal punto di vista mentale e fisico. Mancavano gli infermieri e dovevamo sollevare i pazienti e spostarli dal letto alle barelle per portarli a fare la tac. Arrivavo a casa alle 22 distrutto e il mattino dopo, alle sei, si ricominciava.

Quali errori ha fatto, secondo lei, il governo britannico nella gestione della pandemia?
Senz’altro aprire per Natale. È stato davvero stupido e ha provocato la seconda ondata che è stata anche peggiore della prima. E anche, a novembre, durante il secondo lockdown, non mettere Londra nella zona rossa. Si dice che sia stato fatto per proteggere l’economia ma, certamente, è stato un errore. Le indicazioni date, poi, non sono state chiare fin dall’inizio e i cittadini non hanno rispettato le regole. È questo il rischio che corriamo anche adesso. Pensare che possiamo abbandonare mascherine, distanza e gel e sarebbe un vero disastro.

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