“Siamo ancora dentro l’emergenza-Covid, inutile illudersi. Si tratta quindi di assumere tutte le precauzioni necessarie per tutelare la salute propria e altrui, mentre i Paesi europei devono imbastire e dar corso, al più presto, a una solida risposta alla pandemia in ambito sanitario, economico e sociale”. David Sassoli riceve il corrispondente del Sir nel suo ufficio al nono piano del palazzo Paul-Henri Spaak. Sulla scrivania un’infinità di carte e di libri, qualche fotografia alle pareti, alle sue spalle la bandiera blu con le dodici stelle, a lato una finestra che dà sulla città. Il presidente del Parlamento Ue è rimasto a lungo a Bruxelles in questi mesi, costretto lontano dalla famiglia: si trattava di “tenere aperta la casa degli europei, la casa della democrazia”. Ma, lo si nota sul suo volto, il lockdown è stato pesante. “In tutta Europa il coronavirus ha causato sofferenze e decessi e ora i contagi riprendono: diversi Stati – afferma – tornano a misure anti Covid”: accade in Francia, Spagna, qui in Belgio. Il virus si diffonde nell’Europa dell’est e nei Balcani. “Bisogna essere ancora prudenti. E intanto investire nella ricerca, perché vaccini e terapie efficaci saranno il vero antidoto rispetto a una ripresa della pandemia”.
Presidente, il Consiglio europeo ha approvato il Recovery Fund da 750 miliardi per far fronte alla crisi. Ora ci saranno una serie di passaggi istituzionali, a livello nazionale ed europeo, per renderlo operativo. Quale il suo giudizio?
Le conclusioni cui è giunto il Consiglio sono molto positive: nessuno ha abbandonato il tavolo, nessuno è uscito scontento. Certo, ci sono state divergenze e frizioni, ma alla fine si è compreso il messaggio essenziale: nessuno se la cava da solo. Credo che emerga un’Europa più forte. Ci sono un piano finanziario ambizioso e un bilancio pluriennale ancora da definire che il Parlamento vuole discutere perché sia all’altezza della ricostruzione economica. E non manca la prospettiva di risorse proprie per il budget Ue, ovvero un autofinanziamento del bilancio comunitario che non graverà sulle tasche dei cittadini. I fondi europei saranno indirizzati verso progetti presentati dagli Stati membri: teniamo presente che più di un quarto dei finanziamenti – pari a 209 miliardi – sarà riservato all’Italia, in quanto Paese più colpito dalla pandemia. Si tratta ovviamente di fare arrivare al più presto questi soldi a destinazione, senza ritardi.
Si è parlato della necessità di un cambio di passo nel modello di sviluppo. Il Recovery Fund – sommato ai 540 miliardi già stanziati dall’Eurogruppo per la ripresa economica, l’occupazione e gli ammortizzatori sociali – può essere una buona occasione?
Certamente. Occorre orientare le nostre scelte verso nuovi modelli di sostenibilità ambientale, sociale ed economica. Abbiamo di fronte sfide inedite, che certo non iniziano né finiscono con il Covid. I Paesi che fanno parte dell’Unione europea hanno la possibilità di sentirsi parte di un unico e grande disegno che ha come elemento determinante la solidarietà. La quale non è un concetto astratto: si tratta di unire le forze per dare risposta alle imprese che rischiano di chiudere, alle famiglie che hanno perso reddito, alle fragilità, alla povertà. Aggiungerei che in questa crisi abbiamo riscoperto il valore del welfare, che è un patrimonio tipicamente europeo. In questa pandemia nessuno è stato lasciato solo o senza cure: in altre regioni del mondo se non hai un grosso conto in banca nessuno ti cura! Ecco, questo è un tempo favorevole anche per ripensare il nostro modello sociale. Al centro dei progetti e della politica, direi al cuore della nostra democrazia, devono tornare due concetti basilari: la persona e la comunità, con i loro diritti, i loro bisogni. In questo torniamo alle origini del processo di integrazione europea, rivolgendo al contempo il nostro sguardo al futuro.
Risposte comuni, solidarietà, convergenze tra gli Stati… Da questa fase il nazionalismo esce perdente?
Il fatto è che il nazionalismo non ha nulla da dire in questa crisi. Alzare i muri non serve a niente: non protegge dalle malattie, non aiuta a far ripartire l’economia e il lavoro. Io credo che il nostro stare insieme sia il solo modo per rispondere a sfide comuni. E aggiungo che l’Europa in questa stagione sta affermando una nuova visione di politica, fatta di ideali e di pragmatismo. C’è bisogno di grandi progetti e di indirizzare gli investimenti verso riforme strutturali: si pensi all’istruzione e all’università; all’economia verde, che crea posti di lavoro; alla tutela dell’ambiente, con l’obiettivo delle emissioni-zero entro il 2050; alla riforma della giustizia civile; all’ammodernamento della pubblica amministrazione; alla digitalizzazione.
Europa-Italia: un rapporto non sempre facile. Il Recovery Fund ci sarà d’aiuto?
L’Ue mette a disposizione una mole ingente di risorse. Ritengo fra l’altro un’ottima scelta il fatto che lo stesso presidente del Consiglio voglia assumere la regia del piano di ripresa. Aggiungo che il ruolo di Conte durante il Consiglio europeo è stato determinante: ha saputo costruire, passo dopo passo, un accordo che gioverà all’Europa e all’Italia. Ora si tratta di definire un ambizioso piano per ammodernare e riconvertire il Paese: l’Italia ha tutte le capacità e le potenzialità per ripartire e per cambiare, laddove occorre. Aggiungerei che l’Europa intera guarda alla Penisola, perché la nostra è un’economia centrale del mercato unico, profondamente interconnessa con quelle degli altri Stati. Ritengo, poi, che ci siano due punti essenziali da tenere in massima considerazione nel definire i progetti nazionali di rilancio: il Mezzogiorno, che ha sete di infrastrutture e di opportunità di lavoro; le donne e i giovani, sui quali la crisi sta gravando pesantemente, mentre – lo sappiamo – costituiscono una immensa risorsa per l’Italia.
In sede Ue si vorrebbe legare lo stanziamento di fondi comunitari al rispetto dei valori espressi dai trattati. È d’accordo?
Sì. Perché l’Unione europea non può essere solo un bancomat. Abbiamo principi condivisi che tutti devono rispettare: lo stato di diritto e le garanzie democratiche sono la premessa del nostro stare insieme.
Il Parlamento europeo ha approvato l’accordo sul Recovery Fund ma punta i piedi sul Quadro finanziario pluriennale, stabilito in 1.074 miliardi, pari all’1% del prodotto interno lordo Ue. Perché questa frenata?
Perché il Parlamento sa che il Qfp è il bilancio che ci accompagnerà per i prossimi sette anni, e per questo deve consentirci di raggiungere obiettivi di medio periodo e di vasta portata. Ma se chiediamo una politica di sicurezza e tagliamo i fondi, se vogliamo una politica migratoria comune e diminuiamo le risorse, se affermiamo di puntare sui giovani e riduciamo gli investimenti per istruzione, Erasmus e cultura, quale coerenza dimostriamo? In questo senso la visione dei 27 governi appare piuttosto miope. Il bilancio dev’essere adeguato agli orizzonti che abbiamo di fronte a noi.
Durante il lockdown il Parlamento europeo è sempre rimasto aperto. Nelle sue sedi, a Bruxelles e Strasburgo, sono state ospitate cento donne indigenti, si sono preparati pasti caldi per i senzatetto, sono stati allestiti centri medici. E l’attività legislativa è proseguita. Si voleva far passare il concetto di Parlamento “casa dei cittadini” e “casa della democrazia”?
Esatto. Non è stato semplice, ma abbiamo trovato le modalità per proseguire l’azione legislativa e di indirizzo politico e allo stesso tempo è apparso doveroso mettere a disposizione dei cittadini l’istituzione che li rappresenta.
Un’ultima domanda. All’inizio dell’anno si parlava molto della Conferenza sul futuro dell’Europa. Poi è arrivata la “clausura” dovuta alla pandemia. Il progetto sta ripartendo?
Il Parlamento è pronto. Auspico che questo importante spazio di confronto tra cittadini, istituzionali nazionali ed europei decolli in autunno. È chiaro a tutti che per rendere più forte ed efficace l’Unione europea servono aggiustamenti alla macchina istituzionale. I meccanismi democratici devono, a mio avviso, stare al passo coi tempi: ad esempio il voto all’unanimità, ovvero il diritto di veto in seno al Consiglio, è assolutamente anacronistico. La Conferenza sul futuro dell’Europa dovrà essere un processo partecipativo finalizzato a rilanciare l’Ue partendo dall’ascolto dei cittadini stessi, dei territori, dei Paesi membri. Considerando, inoltre, il ruolo fondamentale che l’Ue è chiamata a svolgere sulla scena internazionale, dalla parte della pace, del multilateralismo dei diritti, dello sviluppo e della giustizia sociale.