In Europa il razzismo non prende di mira il volto del “nero” ma dello “straniero” e la discriminazione è un cancro che nasce e si sviluppa nelle periferie delle grandi città, soprattutto laddove intere comunità etniche sono state per decenni isolate e ghettizzate. Se le proteste per la morte di George Floyd hanno unito Stati Uniti e Europa, le realtà sociali e le ragioni della lotta sono molto diverse. Ne parliamo con mons. Antoine Hérouard, vescovo ausiliare di Lille (in Francia) e presidente della Commissione per gli Affari Sociali della Comece. Nei giorni scorsi, sulla scia di quanto successo negli stati Uniti anche la Francia è scesa in piazza. In migliaia hanno manifestato a Parigi in nome di Adama Traoré, un giovane di 24 anni nero morto il 19 luglio 2016 nella caserma di Persan, nella Val d’Oise, quasi due ore dopo il suo fermo al termine di un inseguimento. Secondo la perizia, anche la sua morte sarebbe stata causata dalla tecnica di immobilizzazione adottata dai gendarmi, quella del “placcaggio ventrale”.
Mons. Hérouard, la Francia come gli Stati Uniti?
La situazione in Francia e in generale in Europa è assai diversa. Qui la discriminazione non nasce dal colore della pelle. Si sviluppa piuttosto attorno allo straniero e al diverso. Ciò è dovuto al fatto che le nostre storie sono diverse. Se gli Stati Uniti sono stati segnati dalla esperienza della schiavitù, in Europa abbiamo piuttosto vissuto il colonialismo. Non abbiamo avuto una vera e propria segregazione raziale. Se c’è una discriminazione in Europa, è vissuta piuttosto a livello economico, di povertà, di divario tra ricchi e poveri, tra chi ha una chance di futuro e chi invece sembra essere destinato a vivere ai margini della società.
Ma esiste il razzismo?
Il razzismo esiste e si manifesta nel pregiudizio. A volte questo pregiudizio si esprime anche con una scelta di voto. Esiste anche nei comportamenti, come quelli commessi dalla polizia nelle periferie delle grandi città, accusati di prendere di mira ed usare metodi di controllo violento solo verso individui di aspetto arabo e nero.
Dove si è sbagliato?
Negli ’60, la Francia ha conosciuto un forte flusso migratorio proveniente dall’Africa del Nord, di origine araba, e dai Paesi del Sud Sahel, l’Africa Nera. All’epoca si pensò di costruire quartieri nuovi nelle periferie delle grandi città dove accogliere queste persone in base all’origine geografica, etnica e culturale. Nel tempo questi luoghi si sono trasformati in ghetti ed hanno sviluppato al loro interno problemi che oggi sono radicati come il traffico di droga e la criminalità. Questo non ha funzionato: la ghettizzazione. Chi vive in queste periferie ha la sensazione fortissima di essere considerato cittadino di serie B, vittima di un’ingiustizia sociale.
Quale la lezione trarre dalla storia?
Non ripetere l’errore di isolare le persone ma prevedere percorsi di integrazione, cercando soprattutto di far vivere insieme popolazioni di origine diversa. È poi molto importante anche permettere alle persone che vengono da fuori, di accedere a percorsi educativi e formativi che consentono uno sbocco lavorativo, una responsabilità sociale e anche un impegno politico.
E le Chiese cosa possono fare per combattere ogni forma di discriminazione?
Intanto, c’è un ruolo molto importante che i cristiani di origine africana già svolgono con la loro presenza nelle nostre comunità e parrocchie. Spesso, le nostre chiese locali, soprattutto nelle periferie, sono viventi grazie a questi cristiani. La loro presenza cambia il volto della nostra Chiesa. Che posto siamo capaci di dare nelle nostre comunità parrocchiali a queste persone? La Chiesa poi – come dice spesso papa Francesco – è chiamata oggi a creare legami e costruire ponti. Il futuro dipende dalla nostra capacità di essere uomini e donne di relazione.