L’epidemia da coronavirus rappresenta certamente una tragedia mondiale. L’Italia è attualmente il Paese con il maggior numero di vittime, ma il Covid-19, che dapprima ha colpito la Cina, ora si sta diffondendo in tutti i continenti e soprattutto in Europa. Tutti i governi corrono ai ripari, anche se quello del Regno Unito, guidato da Boris Johnson, sembra aver preso una strada propria, non si sa quanto efficace. Ma come si vive ogni giorno a Londra e sull’isola? Lo chiediamo a Edoardo Ongaro, lombardo d’origine, professore ordinario di Public Management presso la Open University del Regno Unito, con una intensa attività di collaborazione nella ricerca e nella didattica con istituzioni italiane, tra cui l’Università Bocconi, l’Università Cattolica, il Politecnico di Milano. Dopo un master a Londra, presso la London School of Economics, e il dottorato di ricerca al King’s College, Ongaro ha deciso di trasferirsi con la famiglia nel Regno Unito: la moglie Anna lavora come professionista nelle relazioni pubbliche e i figli frequentano il sistema delle scuole pubbliche cattoliche (le scuole confessionali sono parte del sistema pubblico nel Regno Unito). È in uscita nella seconda metà del 2020 il suo libro in lingua italiana Filosofia e governance publica.
Professore, come si vive la giornata-tipo nel Regno Unito?
Chiusi in casa… però è una strana situazione, con il governo che fornisce solo indicazioni di comportamento, che cambiano quasi giornalmente, ma non emana dei veri e propri regolamenti su cosa sia lecito fare e cosa no. È un approccio che, visto da lontano, può anche essere interpretato quasi idealisticamente (“il Regno Unito come il Paese dove le libertà individuali non vengono mai conculcate e il cittadino si autoregola per il bene comune”), ma sul terreno non è cosí: confusione, paura – gli scaffali dei supermercati si stanno svuotando –, individualismo e menefreghismo sono la nota dominante. Anche se si riscontra tanto senso civico, soprattutto da parte degli operatori dei servizi pubblici, dalle scuole agli ospedali, dalla raccolta della spazzatura ai trasporti.
Qual è l’organizzazione quotidiana della vita famigliare?
Ora che le scuole sono chiuse e il telelavoro è la politica aziendale ufficiale, l’organizzazione della vita famigliare assomiglia molto a quella che si sta vivendo quotidianamente in Italia, con difficoltà molto simili – ovviamente per chi può organizzarsi di lavorare da casa. Anche se, appunto, è solo “fortemente consigliato” di non uscire di casa e non viaggiare, ma non proibito. Questo dà spazio all’azzardo morale: ci sono persone che hanno saccheggiato i supermercati creando problemi di approvvigionamento alle altre famiglie; altri che fino a ieri frequentavano i pub e, inevitabilmente, hanno fatto circolare il virus. Da ieri, finalmente, il governo ha preso almeno questa decisione e ha chiuso i pub.
Qual è stata la cosa più difficile da affrontare in questi giorni?
So che può sembrare un dettaglio – e certamente lo è rispetto alla situazione di chiunque abbia in questi giorni una persona cara ammalata, o tragicamente scomparsa senza il conforto dei propri cari, o che rischia di perdere il lavoro – ma una decisione veramente difficile qui nel Regno Unito è stata quella di dover mandare i figli a scuola a rischio di farli ammalare, in ottemperanza a una politica governativa che, in coscienza, noi e molti giudicavamo insensata: per alcuni giorni, gli unici due Paesi europei (non dell’Unione europea, ma più ampiamente di tutta Europa) a tenere aperte le scuole sono state la Bielorussia e il Regno Unito!
Come è stata, secondo lei, la risposta alla crisi da parte del governo britannico?
All’inizio non si è ben capito, poi si è compreso come il piano iniziale fosse di far correre in modo “regolato” il virus, limitando il picco di malati ma lasciando che il virus circolasse per – cosí è stato detto – immunizzare la popolazione, cercando al contempo di isolare i più anziani per limitare il numero totale delle vittime. Successivamente è emerso che l’approccio seguito era ispirato da un piano predisposto intorno al 2011-12, dopo i casi di alcune epidemie scoppiate in vari momenti a partire dal 2003, che poi sembrerebbe essere un piano predisposto per affrontare una variante più aggressiva di influenza. Ma la domanda che ci si siamo subito posti posti è stata: questo patogeno è come una influenza “più aggressiva”, o è molto peggio? Anche a fare dei calcoli molto sommari, senza sofisticati modelli matematici, emergeva come il tasso di mortalità fosse troppo alto per adottare una politica del lasciare viaggiare il virus in modo controllato, anche ammesso che si potesse effettivamente controllare il ritmo con cui circola.
Come avete vissuto quei primi giorni di incertezza, specialmente per dei cittadini italiani regolarmente informati su ciò che stava accadendo in Italia?
Dal punto di vista psicologico e cognitivo è stato veramente spiazzante e difficile. L’unanimismo politico e mediatico dei primi giorni qui nel Regno Unito è stato impressionante: governo e opposizione, mass media, esperti, tutti pressoché unanimi nel lodare la risposta “basata solo sull’evidenza scientifica” del governo. Ma i conti non tornavano, come poter lasciar circolare il virus senza avere – su una popolazione di circa 66 milioni di abitanti, di cui tra il 40% e l’80% si sarebbe ammalata – una carneficina, se anche solo l’1% dei contagiati fosse deceduto? È stato un momento surreale, dominato da una discrasia cognitiva tra quello che veniva comunicato e quello che sembrava ragionevole e che si osservava, tragicamente, leggendo le cronache dall’Italia (e successivamente anche da Spagna e Francia, ad esempio). E poi, diciamolo senza polemica ma anche senza essere dimentichi del contesto: il governo della Brexit, il cui messaggio (vincente) ai cittadini è stato “segui i tuoi istinti, non gli esperti”, annunciava ogni decisione come “guidata dalla scienza”: a differenza del presidente del Consiglio italiano o del presidente della Repubblica francese, che hanno annunciato le misure contro il coronavirus andando in video da soli, l’attuale primo ministro britannico appare in video sempre e solo affiancato da due esperti medici, sostenendo che ogni decisione è presa sulla base dell’evidenza scientifica – ma io come scienziato so bene quanto la conoscenza scientifica sia al più “probabilistica”… dove è finito il “principio di responsabilità”? Dove è la responsabilità politica di chi ha voluto essere la massima autorità politica del Paese?
Cosa può aver portato dalla decisione iniziale di adottare la politica di lasciar circolare – seppure in modo “controllato” – il virus, all’idea di sperimentare su scala di un intero Paese l’approccio di immunizzare la popolazione (la cosiddetta “immunità di gregge”) non attraverso un vaccino ma lasciando circolare lo stesso coronavirus?
Gli storici esamineranno questi momenti e daranno una risposta più esaustiva. Potrebbe esservi stata una combinazione di elementi: fiducia un po’ cieca nel proprio piano “studiato a tavolino” (e, beninteso, avere un piano preparato va a merito del sistema amministrativo pubblico e dei governi che lo avevano sviluppato in anni precedenti e lasciato pronto all’attuale governo)? Una propensione quasi maniacale a sperimentare qualcosa di diverso (l’idea che lo “spirito britannico” consiste nel guardare le cose da tutti gli angoli e sperimentare nuove soluzioni, alle quali nessuno ha mai pensato, è radicatissima qui)? Una fortissima propensione al rischio (il Regno Unito è un Paese che ama il rischio – non a caso il gioco d’azzardo è cosí diffuso), che porta a vedere come estremamente attraente la prospettiva di fare qualcosa di diverso che si può rivelare vincente, ma rischiando – letteralmente – tutto? Forse anche e più semplicemente priorità confuse di un governo ideologico che “deve” dimostrare al mondo che la Brexit può essere vincente, e dunque ha dato, almeno all’inizio, un peso eccessivo alle implicazioni economiche della crisi? Un corto-circuito decisionale tra scienziati di grandissimo peso ma che possono perdere il senso delle implicazioni politiche di certe scelte, e politici che amano fare sempre parallelismi storici con il periodo Churchilliano? Gli storici investigheranno, probabilmente troveranno un misto di tutto questo. Però sta di fatto che il governo britannico è ora allineato a tutti gli altri Paesi europei, e ha probabilmente perso settimane preziose, forse decisive, per contenere la diffusione del virus. Una settimana fa un pezzo della Bbc era intitolato “Perché (forse) il Regno Unito non farà la fine dell’Italia”, una settimana dopo un pezzo della Bbc parla delle “Lezioni che il Regno Unito può apprendere dall’esperienza italiana”.
Un pensiero o un auspicio conclusivo?
Desidero finire esprimendo un pensiero di profondissima vicinanza a tutti… in tutta Europa, in tutta Italia, e a tutti coloro che vivono giornate cosí difficili nella “mia” Lombardia e Milano. Ne usciremo da questa crisi. E ne uscirà un mondo, un’Europa, un’Italia molto diversi: all’inizio saremo più poveri e in difficoltà economiche e forse questo genererà anche tanta rabbia sociale e comportamenti predatori, non soltanto, come vorremmo ed auspicheremmo, una doverosa solidarietà… E, cosa più importante di tutte, saremo in lutto per le persone care perdute prematuramente – e vorrei ribadire che sono perdite veramente “premature” anche quelle delle persone più anziane. Ma forse saremo anche più solidali e più forti, meno viziati e viziosi, soprattutto se certe scelte sapranno essere prese, e lezioni importanti apprese. Guardando ancora più in là nel tempo, fra decenni, temo purtroppo che le lezioni apprese non dureranno per sempre: a un certo punto i medesimi errori verranno ripetuti (come proprio in questi anni stavamo ripetendo gli errori che ci hanno portato a due guerre mondiali), ma forse almeno queste generazioni – tanto chi oggi è più anziano come i giovani – se ne ricorderanno, ce ne ricorderemo e ne trarremo insegnamenti per essere persone migliori, più fraterne e, semplicemente, più umane.