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Covid-19 e profughi dalla Turchia. Graglia: “L’Unione europea ha le mani legate”

Le questioni sanitarie, la politica estera, le migrazioni, l’istruzione e la ricerca, “problematiche evidentemente di natura sovranazionale per dimensione e risorse da impiegare, non sono di competenza esclusiva dell’Unione”. Lo chiarisce Piero Graglia, docente di Storia dell’integrazione europea all’Università degli Studi di Milano, interrogato dal Sir su coronavirus e profughi siriani provenienti dalla Turchia verso i confini greco e bulgaro. “Il sistema è sbilanciato – osserva –: molta integrazione in campo economico e commerciale ma pochissima in campo politico”. Così l’Ue resta il bersaglio preferito dei populisti, “travestiti da patrioti”, che però fanno il gioco di Usa, Russia e Cina

(Foto AFP-SIR)

Ancora una volta l’Europa è sotto assedio: da una parte l’emergenza Covid-19, cui ha cercato di imbastire una risposta la Commissione europea; dall’altra la tragica situazione dei migranti sospinti da Erdogan verso Grecia e Bulgaria. Ieri i vertici Ue si sono recati “sul campo” per verificare la situazione, promettendo interventi umanitari e per fare pressione politica su Ankara. Ma il quadro complessivo è drammatico: ne parliamo con Piero Graglia, docente di Storia dell’integrazione europea all’Università degli Studi di Milano.

Professore, la cronaca di queste ore è per diversi aspetti inquietante. Cosa ne pensa?
Stiamo parlando di una psicosi e di un problema strutturale: in entrambi i casi l’Unione è sostanzialmente disarmata, poiché le armi (in senso politico) gliele dovrebbero dare i governi degli Stati membri e questo non avviene. Ovviamente mentre gli Stati rifiutano quelle cessioni di sovranità necessarie ad affrontare problemi di portata europea, come la sanità in tempi di pandemia e l’immigrazione, continuano a lamentarsi che “l’Europa” non interviene, come se “l’Europa” fosse un’entità di natura magica o misterica. Nel caso poi dell’atteggiamento della Turchia e dei profughi siriani sospinti verso Grecia e Bulgaria, siamo di fronte a un vero e proprio ricatto al quale l’Unione dovrebbe rispondere coralmente come a un atto di aggressione verso ogni Stato membro; ma anche in questo caso l’Unione potrà fare poco, mancando a essa la capacità di esercitare una sua vera e propria politica estera in presenza dei veti incrociati degli Stati membri. In ogni prospettiva siamo sempre e comunque di fronte a un problema di fondo: il potere che gli Stati membri hanno di vanificare ogni azione che l’Unione potrebbe predisporre come soggetto unico sulla scena internazionale. Questo rende gli Stati membri e la loro pretesa di essere sovrani in ogni campo, parte del problema, non della soluzione.

Non passa giorno, del resto, in cui l’Ue non sia chiamata in causa per intervenire dinanzi a problemi che attanagliano l’Europa comunitaria e i suoi Stati membri: si pensi, di recente, alla crisi economica, poi è arrivata l’ondata migratoria da Africa e Medio Oriente, quindi le minacce terroristiche… Oggi ci sono di mezzo la salute pubblica e, ancora una volta, il nodo-migrazioni, correlato a un quadro di instabilità politica alle porte dell’Europa. Ma l’Unione europea in quali settori della vita pubblica ha reali competenze?
Prima di tutto dovremmo intenderci, tutti, su cosa si intenda per salute pubblica. Vedevo ieri una notizia di agenzia dagli Stati Uniti che citava Bloomberg, uno dei candidati possibili alla presidenza degli Stati Uniti per il Partito democratico. Ebbene per Bloomberg le stragi perpetrate negli Stati Uniti da individui armati fino ai denti è un problema di “public health”, nero su bianco. Per noi sarebbe un problema grave di ordine pubblico. Se però ragioniamo in termini “europei” e non statunitensi, le questioni sanitarie, l’istruzione e la ricerca, la politica estera, cioè problematiche evidentemente di natura sovranazionale per la dimensione e le risorse da impiegare, non sono di competenza esclusiva dell’Unione. Pensiamo solo all’importanza che le istituzioni di alta formazione europee possano dialogare tra loro e riconoscere, ad esempio, i titoli conseguiti nei diversi Paesi dell’Ue. Abbiamo fatto passi in avanti enormi in questo senso ma ancora siamo lontani da un automatico riconoscimento senza problemi. Lo stesso vale per la politica estera, da sempre appalto dei singoli Stati, e pure l’emergenza per il coronavirus dimostra che anche in campo sanitario esistono forse linee guida europee ma non una reale capacità di intervento dell’Unione. L’Ue ha però ampie competenze per quanto riguarda la moneta, la politica economica, il commercio internazionale, la tutela ambientale (limitatamente alle possibilità di raccogliere dati nazionali), il coordinamento delle azioni di polizia contro la criminalità organizzata. Ma le mancano competenze fondamentali ad esempio nel campo della difesa, nel campo dell’armonizzazione fiscale e in quei campi, già ricordati, che vedono una resistenza tenace degli Stati membri a cedere competenze.

Dunque?
Tutto ciò produce un sistema sbilanciato: molta integrazione in campo economico e commerciale ma pochissima in campo politico, mantenendo peraltro la possibilità che gli Stati si possano fare concorrenza sleale sul piano della politica fiscale per attrarre investimenti. Con questa asimmetria l’Ue è condannata a subire i continui attacchi del populismo nazionalista che le imputa ogni colpa e nel contempo predica il ritorno a un’Europa divisa in Stati indipendenti e sovrani vista l’impotenza dell’Unione. Una schizofrenia politica che alimenta nostalgie di estrema destra e che pagheremo cara, molto cara, in termini di instabilità, disgregazione sociale, nuovi rigurgiti nazionalisti.

E, in relazione alle competenze assegnatele dai Trattati, l’Ue ha sufficienti mezzi e risorse per risposte efficienti e durature? La discussione in corso sul Quadro finanziario pluriennale lascerebbero intendere che gli Stati chiedono molto a Bruxelles, salvo stringere i cordoni della borsa.
Il problema è non solo che l’Ue abbia le competenze per affrontare problemi di natura sovranazionale, ma che abbia anche le risorse per farlo. Il bilancio per il 2020 dispone di circa 168 miliardi in totale. Con essi l’Unione deve occuparsi di ambiente, sostenere l’agricoltura e i produttori europei, promuovere progetti industriali per la difesa (ma in assenza di un esercito europeo), predisporre progetti di cooperazione tra gli Stati membri nell’ambito dei cosiddetti “fondi europei”, e infine fronteggiare le emergenze migratorie (con solo 2,36 miliardi di euro). L’occasione dell’uscita del Regno Unito era, in questo senso, da cogliere al volo: se ne è andato lo Stato che, storicamente, ha sempre remato contro la possibilità che la Cee/Ue avesse maggiori risorse per intervenire con le politiche comuni. Si sarebbe dovuto negoziare il nuovo bilancio settennale 2021-2027 con audacia e lungimiranza, invece si è scelta la strada della timidezza. Sovranisti, nazionalisti e populisti vogliono un’Unione debole per attaccarla con efficacia e quindi, per evitare contrapposizioni con quegli Stati contrari a un aumento del bilancio, si è abbandonata la prospettiva di un bilancio dell’Unione pari all’1,1% del Pil europeo e ci si è fermati all’1,069%. Ma alcuni Stati vorrebbero addirittura limitarsi all’1%, salvo poi strillare che l’Ue non fa abbastanza per loro e per tutti gli altri… Se non si esce da questo clima di schizofrenia politica, di frustrazione rabbiosa, ma nello stesso tempo impotente e senza proposte, credo che l’Ue sarà costretta a ridimensionare le proprie ambizioni globali, con soddisfazione dei suoi nemici internazionali: gli Stati Uniti, la Russia e la Cina. E ovviamente con il plauso dei nazionalisti nostrani, vere e proprie quinte colonne di avversari (o competitors che dir si voglia) esterni, anche se mascherati da sinceri patrioti.

Un’ultima domanda. Lei, da storico ed esperto di Ue, ritiene che la storia dell’integrazione europea abbia qualcosa da insegnare rispetto alle sfide odierne?
La storia è una pessima insegnante: prima ti dà il voto e poi ti spiega la lezione. Noi la lezione dei guai provocati dall’Europa divisa in Stati sovrani non l’abbiamo mai capita, anche se sono settant’anni che la studiamo inutilmente. Alcune delle sfide odierne (immigrazione e problema dei profughi da zone di guerra, emergenze sanitarie, globalizzazione economica e commerciale) hanno chiaramente una dimensione inarrivabile da parte dei singoli Stati. I virus oltrepassano anche le frontiere più fortemente presidiate; i flussi migratori sono di fatto inarrestabili, oltre a essere storicamente una risorsa; le attività economiche ormai si muovono in rete e passano sulle teste dei governi nazionali, sempre in competizione tra di loro per essere “recipienti” di capitali e attività economiche. L’Unione europea è la risposta a questi problemi, per dare un senso all’integrazione economica e politica e rispondere al principio della soluzione applicata al livello più efficiente: problemi europei e mondiali non possono avere soluzioni a livello nazionale. È talmente ovvio e palmare che quasi sorprende che si debba ancora ripetere che l’Unione non è un avversario degli Stati membri, un soggetto estraneo: l’Ue è gli Stati che la compongono, e questi Stati ne orientano la natura, le politiche, i comportamenti, finanche le risorse. In questi settant’anni la storia dell’integrazione europea ha dimostrato che solo a fatica alcune istituzioni dell’Unione, come il Parlamento europeo, o la Corte di giustizia, hanno eroso competenze degli Stati membri e si sono resi autonomi, facendo crescere il processo di integrazione e rendendolo un percorso affascinante, un laboratorio politico mai visto.

In definitiva?
Ciò che insegna questo percorso è che le soluzioni vanno verso l’alto, verso il livello sovranazionale, non vanno verso il ritorno alle “piccole patrie”. Quella resta una dimensione importante, culturalmente e ideologicamente, ma sostanzialmente limitata come capacità di azione. L’azione politica a livello nazionale deve affiancarsi a quella a livello sovranazionale, facendo della sussidiarietà e della “divisione del lavoro internazionale” per i diversi problemi da affrontare, un approccio concreto. Lo diceva nel 1937 un “pericoloso sovversivo”, Lord William Beveridge, assurdo che lo si debba ripetere ancora oggi per farlo entrare nelle teste quadre dei “nuovi” nazionalisti che sono rimasti all’Ottocento ante guerra: la prima, non la seconda!

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