Il Giorno della memoria è il giorno in cui l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha scelto di ricordare l’Olocausto perché, il 27 gennaio 1945 veniva liberato il campo di sterminio di Auschwitz. Un complesso lager nazista realizzato in Polonia, reso operativo il 14 giugno 1940, nel quale i prigionieri venivano trasportati su dei treni e, nel primo convoglio che varcò le porte, c’era anche Marian Kołodziej. Nato a Raszkow il 6 dicembre 1921, era uno scout cattolico che cercò di arruolarsi tra le file dell’esercito polacco in Francia, ma venne arrestato dalla Gestapo come cospiratore e spedito ad Auschwitz sul treno inaugurale. La sua è una esperienza molto particolare, infatti Kołodziej, subito dopo la fine della II Guerra mondiale, divenne un famoso scenografo teatrale, sposato con la ballerina Halina Słojewska, realizzò per 2 volte l’altare dove Giovanni Paolo II celebrò messa durante le visite in Polonia, e per 50 anni non ha mai parlato con nessuno della sua esperienza ad Auschwitz. “Portavo una maschera”,le sue parole in vita prima di morire il 14 ottobre 2009 a Danzica, la città che gli ha concesso la cittadinanza onoraria. Un cortocircuito fa saltare la maschera dell’artista polacco, infatti 50 anni dopo la fine della guerra, viene colpito da un ictus che riporta alla sua memoria tutti quei ricordi che aveva cercato di rimuovere e, con questi, anche la promessa fatta con i suoi compagni di prigionia, cioè l’impegno a raccontare i fatti vissuti nel caso si fosse salvato.
Paralizzato per metà del corpo, ha iniziato a disegnare come esercizio di fisioterapia ma, soprattutto, per cercare di far convogliare le sue memorie in piccoli segni di matita, gli unici che il fisico gli permetteva, scritti su pezzetti di carta che poi solo in seguito attaccava tutti insieme per comporre un’immagine di senso compiuto. I ricordi di Auschwitz sono, nella mente di Kołodziej, come un turbine che lui convoglia in un flusso che acquista i connotati di labirinti. Proprio per questo motivo la mostra dei suoi ricordi prende il nome di “Cliché della memoria, i labirinti di Marian Kołodziej” e si trova nel piccolo villaggio di Harmeze, nel centro di spiritualità kolbiana gestito dalle suore missionarie dell’Immacolata. Dall’ingresso della mostra fino all’uscita, ci si immerge in una istallazione composta sullo stile di un labirinto, dove le scene non sono sequenziali ma fanno perdere l’orientamento di chi guarda e vive un viaggio nella memoria dell’artista. Si sale con lui in quel vagone che lo ha trasportato ad Auschwitz, tra foto e disegni che cercano di far immedesimare chi guarda in uno stato di ansia che è solo il preludio di quello che lo aspetta una volta che il treno si fermerà. Tra i tanti nomi di nazionalità diverse scritti con il gesso sulle pareti di legno, l’impegn o preso tanti anni indietro e tradotto dalle parole del poeta Zbignew Herbert “Ti sei salvato non per vivere, hai poco tempo, devi dare testimonianza”. Una serie di disegni che pare infinita e descrive bene lo stato d’ansia di una persona che dalle 7,30 di mattina alle 10 di sera trascorreva tutto il suo tempo a disegnare, quasi come se questa fosse la penitenza per aver taciuto fino a quel momento, ma anche la sua preghiera che lui stesso descrive,
“perché ogni segno che faccio con la matita è una preghiera per tutti coloro che se ne sono andati in cenere”.
“Questa non è una mostra, questa non è arte, sono delle parole racchiuse nel disegno. Vi prego leggete queste parole che io per 50 anni non potevo dire”, le parole vergate dallo stesso artista, che rappresentano il rifiuto di accostare l’arte ad una cosa terribile come il racconto di un periodo drammatico come quello vissuto dai prigionieri nei campi di sterminio. Un’apocalisse creata dagli uomini che viene spiegata in diverse tavole sulle quali spicca il passo di San Giovanni evangelista “Ecco io vidi una grande folla che nessuno poteva contare, di ogni popolo, lingua e nazione”, dove la porta dell’inferno è vergata dalla scritta “Arbeit macht frei” e, nella moltitudine di corpi tutti uguali ammassati uno sull’altro, come capitava nel campo dove anche per dormire non si poteva scegliere una posizione diversa da quella degli altri, spicca la figura di padre Massimiliano Kolbe, numero 16670, conosciuto da Kołodziej proprio in occasione del sacrificio della sua vita per salvare quella di Francesco Gajowniczek. Lo sporco, la fame, il dolore, il freddo, la sofferenza, la morte ma anche l’amicizia e la solidarietà, tutto questo nelle opere dell’artista che non nasconde l’intenzione di restare uomo in quel campo che voleva trasformarlo, facendogli chiedere ogni giorno “dov’è Dio?”.
Una risposta che per l’artista sembrava poter venire dalle preghiere udite dalle persone mentre venivano torturate pubblicamente, chiusi in gabbie o crocefissi a dei pali per punizione, ma anche dalle parole di Edith Stein, ebrea, filosofa, carmelitana, martire, che scriveva nel suo ultimo libro restato incompiuto nello scritto ma concluso con la sua esistenza mentre mano nella mano con la sorella, il 9 agosto 1942, entrava nella camera a gas di Auschwitz, “Si può acquistare una ‘Scienza della Croce’ (titolo del suo ultimo libro ndr) solo se si comincia a soffrire veramente del peso della Croce. Ne ho avuto l’intima convinzione fin dal primo istante, e dal profondo del cuore ho detto: ‘Salve, o Croce, unica speranza’”.