Intervista

Brexit, corsa contro il tempo. Roberts (politologo): “May deve tornare a Westminster con un piano B”

Sono ore di forte tensione politica nella capitale britannica. Il governo cerca di sopravvivere alla mozione di sfiducia, ma al contempo la premier deve formulare una nuova proposta per evitare il “no deal”, temuto dai cittadini e dalle imprese inglesi. Il docente dell’Università di Nottingham formula alcuni scenari, fra cui la possibile richiesta da parte di Londra all’Ue di spostare più in là la data del “divorzio”

“La sconfitta del governo ieri sera è stata enorme, la più grande dall’avvio della democrazia parlamentare nel Regno Unito”. Non ha dubbi Simon Roberts, docente di politica pubblica all’Università di Nottingham, esperto di legislazione europea che collabora da anni con la Commissione europea.

La mozione di sfiducia. Quali saranno gli scenari post sconfitta dell’accordo che Theresa May ha firmato con l’Unione europea lo scorso novembre? “Quel trattato è morto ed è impossibile per la premier ridargli vita considerate le dimensioni della bocciatura di ieri sera”, spiega al Sir il professor Roberts. “Questa sera il governo dovrà anche affrontare una mozione di sfiducia proposta dal leader laburista Jeremy Corbyn. Sopravvivrà, è quasi certo, considerato che i deputati conservatori e anche il partito nordirlandese Dup sosterranno Theresa May perché non vogliono rischiare di perdere un’elezione generale e il potere”. La leadership della May, tuttavia, è a rischio, secondo Roberts, perché la maggioranza dalla quale la premier dipende, in parlamento, è risicata e consiste dei dieci voti dei deputati nordirlandesi del Dup che potrebbero decidere di sottrarle la fiducia se il primo ministro tornasse con un piano a loro non gradito.

Peccato di arroganza. “La premier deve ritornare a Westminster, lunedì prossimo, con un piano B per il recesso della Gran Bretagna dall’Unione europea ma non è chiaro in che cosa consisterà”, spiega ancora l’esperto. “Secondo molti la May ha peccato di arroganza, dopo il referendum del 2016, nel quale il Regno Unito ha scelto di lasciare la Ue”perché “ha ignorato la metà del Paese che voleva rimanere. Non ha collaborato a sufficienza con i nazionalisti scozzesi, il partito gallese, i verdi e anche i laburisti più moderati con i quali avrebbe potuto trovare un’alleanza”.

Non esiste maggioranza. Cambierà strategia adesso? “Il problema è che non esiste una maggioranza in parlamento attorno ad alcun accordo”, spiega il professor Roberts. “Il referendum voluto da David Cameron, nel 2016, ha aperto tutte le divisioni del Paese. Il Regno Unito non ha una tradizione referendaria e, normalmente, per vincere una consultazione cosi importante ci vuole una maggioranza di due terzi. Invece Cameron ha deciso che bastava il 50% più uno perché voleva assicurarsi, in quel modo, i voti di chi sosteneva il partito Ukip per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione”.

Preoccupazioni economiche. L’unica maggioranza che esiste a Westminster e nel Paese, secondo l’esperto, è attorno al “no deal”, un’uscita senza accordo dall’Unione europea, “perché tutti sanno che sarebbe un disastro economico, politico e sociale”. L’organizzazione degli imprenditori britannici ha fatto sapere al Cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond che i più importanti industriali del Regno Unito sono molto preoccupati e vogliono garanzie che si eviterà il “no deal”.

“Togliere le uova da una frittata…” Come fermare, allora, la corsa verso il 29 marzo 2019 quando il Regno Unito dovrà lasciare l’Ue? Roberts lascia intendere che a questo punto Londra abbia bisogno di più tempo. Magari provando a portare più in là la data del “divorzio” dall’Unione. Questo “soprattutto per evitare la prospettiva del no deal”, del recesso non regolato, che porterebbe problemi e svantaggi all’economia e ai cittadini britannici, così pure a quelli degli altri 27 Paesi europei. Si tratta di una prospettiva complessa, anche perché andrebbe comunque trovata una soluzione per il “leave” prima del 23-26 maggio, quando si terranno le elezioni del nuovo Europarlamento. Secondo il docente esiste però una via di uscita per evitare il “no deal” perché “è aumentata, nei tre anni trascorsi dal referendum del 2016, la consapevolezza, nel Paese e tra i parlamentari, che disfare cinquant’anni di storia è come togliere le uova da una frittata. La Gran Bretagna e l’Unione europea sono troppo legate dal punto di vista politico, economico e legislativo”.