Spagna

In aumento arrivi sulla rotta spagnola. 42 migranti dell’Aquarius accolti dalla diocesi di Valencia. E gli altri?

“È un segno negativo che la nave Aquarius non sia stata fatta sbarcare in Italia ma non è nemmeno positivo che siano stati accolti dalla Spagna solo temporaneamente. Perché non sappiamo quale sarà il trattamento: in che programmi li inseriremo? Cosa accadrà a queste persone tra sei mesi o un anno? Dove vivranno? Sulla strada o in programmi di integrazione già strutturati? La migrazione è una sfida globale”. È il parere di mons. Olbier Hernandez Carbonell, delegato episcopale per le migrazioni dell’arcidiocesi di Valencia, che dal prossimo fine settimana accoglierà nei propri centri 42 migranti dell’Aquarius

Valencia: murale al Barrio del Carmen

(da Valencia) Quale sarà il destino dei 630 migranti della nave Aquarius sbarcati domenica scorsa a Valencia? Diverso o uguale a quello incerto e precario di tanti altri che hanno la fortuna di non morire nel Mediterraneo ma che in Europa non trovano sempre braccia aperte né integrazione sicura? Sono tanti gli interrogativi che si sta ponendo in questi giorni la società civile valenciana, dopo che il governo spagnolo ha dimostrato sì disponibilità all’accoglienza, ma solo per il tempo limitato dei 45 giorni di permesso umanitario. L’arcidiocesi di Valencia ne accoglierà 42 nel prossimo fine settimana: famiglie e uomini nelle strutture della Caritas e 20 giovani nel centro Ciudad de la Esperanca (Città della speranza) nel comune spagnolo di Aldaia, che già ospita 110 rifugiati di 36 nazionalità. Ma già ieri, Giornata mondiale del rifugiato, il cardinale Antonio Cañizares, arcivescovo di Valencia, si raccomandava di “non dimenticare il dramma di altre migliaia di persone che arrivano con barconi o altri mezzi, in questi giorni, sulle coste spagnole, specialmente in Andalusia, e sulle coste italiane”. Il cardinale ha chiesto a tutti i governi “leggi più giuste, equilibrate e generose”.

(Foto: AFP/SIR)

Raddoppiati gli arrivi in Spagna. La conta dei morti è infatti giornaliera: gli ultimi sono 76 dispersi (tra cui 15 donne e un neonato), annegati durante il naufragio del 12 giugno, secondo le testimonianze dei 41 salvati dalla nave militare statunitense Trenton nel Mediterraneo centrale. Quello che le cifre dicono è che, chiuse le rotte balcaniche e libiche con l’accordo europeo con la Turchia e italiano con la Libia, i trafficanti cercano nuove strade o tornano su quelle vecchie. La Spagna lo dimostra: secondo i recenti dati del Servizio dei gesuiti per migranti spagnolo (Sjm) nel 2017 sono entrate in Spagna in maniera irregolare 28.572 persone, via mare o terra. Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), nei primi sei mesi del 2018, in Spagna sono arrivati più di 14 .000 migranti, il 50% in più di quelli arrivati nello stesso periodo del 2017. Solo nel fine settimana scorso la guardia costiera spagnola ha soccorso 1.290 persone alla frontera Sur, ossia nello stretto di Gibilterra e al largo delle isole Canarie. Sono soprattutto algerini e marocchini. Nelle operazioni sono stati recuperati quattro cadaveri e 43 persone risultano disperse.

I numeri della rotta spagnola sono destinati ad aumentare. La Spagna è anche la porta dell’America Latina:

su oltre 46 milioni di abitanti 1 milione sono migranti regolari che hanno acquisito la nazionalità spagnola. Si stima una media di

3.000 persone al giorno che entrano con visto turistico ma che potrebbero diventare migranti irregolari.

L’80% vengono dal Venezuela a causa della crisi politica ed umanitaria in corso, ma anche da Colombia e Brasile.

Mons. Olbier Hernandez Carbonell (Foto: A.Saiz)

“La vera sfida è l’integrazione seria e strutturata”. “Siccome ci sono maggiori controlli su Grecia e Italia la rotta ora è deviata verso la Spagna: arrivano sulla costa valenziana, alicantina, nella Mursia. Vogliono quasi tutti spostarsi verso altri Paesi europei. Molti passano per Valencia”. Lo spiega al Sir mons. Olbier Hernandez Carbonell, delegato episcopale per le migrazioni della diocesi di Valencia. Nell’arquebisbado di Valencia, come riportano i cartelli nell’antica lingua valenciana che caratterizza l’identità di queste zone, il monsignore cubano naturalizzato spagnolo è in prima linea sui temi che riguardano i migranti. Ne comprende la complessità e le sfumature.

Valencia: Plaça de l’Arquebisbe

“La vicenda dell’Aquarius è significativa della situazione che stiamo vivendo a livello internazionale. La migrazione è un fenomeno complesso e complicato che non sappiamo affrontare a livello europeo”.

“Bisogna capire il motivo per cui l’Italia nega l’accesso alla nave”, riflette. “Forse perché i flussi sulle coste italiane sono abbondanti ma non ci sono abbastanza programmi di integrazione né in Italia, Spagna o altri Paesi Ue? Ci sono sì piccoli gesti di solidarietà e aiuto ma

continuiamo ad agire con leggi vecchie e programmi di accoglienza vecchi”.

La sua analisi è precisa e controcorrente: “È un segno negativo che la nave Aquarius non sia stata fatta sbarcare in Italia ma non è nemmeno positivo che siano stati accolti dalla Spagna solo temporaneamente, perché non sappiamo quale sarà il trattamento: in che programmi li inseriremo? Il tema non è se li accoglieremo o meno in maniera puntuale, ma a quale scopo?

Cosa accadrà a queste persone tra sei mesi o un anno? Dove vivranno? Sulla strada o in programmi di integrazione già strutturati? Questa è una sfida globale”.

Il problema, a suo avviso, è che in Spagna “non ci sono validi programmi di integrazione” o comunque ce ne sono pochi e limitati. Tutto è in mano alle Ong, alle Caritas e alla società civile organizzata, che oramai “è satura”.

La Caritas di Valencia e la delegazione per le migrazioni, che ha il più alto numero di volontari in Spagna, circa 6.000, ha un progetto congiunto di accoglienza ai rifugiati “En casa hay sitio para un hermano mas” (In casa c’è posto per un fratello in più), portato avanti insieme ai gesuiti.  Al momento accolgono più di 100 rifugiati in appartamenti indipendenti, con accompagnamento psicologico e giuridico, cibo, vestiario. Lo scorso anno ne hanno assistiti, con servizi vari, circa 25.000, il 48% del totale degli “utenti” Caritas.

A sx mons. Carbonell, a dx Nancho Grande, direttore Caritas (Foto: A.Saiz)

Cie spagnoli per i rimpatri, “il fallimento della politiche”. Altro problema scottante che riguarda la Spagna sono i “Centros de internamiento de extranjeros” (Cie) dove vengono detenuti i migranti irregolari in attesa del rimpatrio. In Spagna ci sono solo 4 centri di accoglienza per rifugiati ma 7 Cie, soprattutto alla frontera Sur dove i controlli sono serratissimi. Secondo l’ultimo rapporto della Sjm dei gesuiti spagnoli, che denunciano “troppa sofferenza”, in quei centri

nel 2017 sono state rinchiuse 8.814 persone, tra cui 396 donne e 48 minorenni. Sono soprattutto algerini (31%), marocchini (18%) e ivoriani (13,78%).

Il restante 21% viene da Guinea, Gambia, Camerun, Mali, Guinea Bissau e Burkina Faso. In totale, negli anni, sono state detenute 18.794 persone migranti, avviati 21.834 procedimenti di espulsione. 9.326 persone sono state rimpatriate, spesso in tempi rapidissimi e senza le necessarie garanzie per consentire ai più vulnerabili e a chi ne ha diritto di chiedere asilo, come denuncia l’Ong dei gesuiti. Il delegato per le migrazioni della diocesi di Valencia non fa sconti a nessuno:

“Rappresentano il fallimento della politica migratoria: dovrebbero esserci più centri di accoglienza che di detenzione.

La legislazione spagnola ed europea deve cambiare, con programmi di accoglienza e integrazione permettere ai migranti una vita degna ma anche aiutandoli veramente – e non per altri interessi come accade ora – nei Paesi di provenienza”.

Le Ong e l’Italia. Parlando dell’Italia mons. Hernandez Carbonell sa che il ministro dell’Interno italiano minaccia di chiudere definitivamente l’accesso ai porti alle navi delle Ong e si chiede:  “Qual è la differenza tra una nave delle Ong e una della Marina militare? Nessuna. Perché se le persone sono messe in mare dai trafficanti non fa differenza chi li salva. È gente disperata. Il problema è all’origine”. A suo avviso “le navi delle Ong sono necessarie, perché se non si è presenti nella zona Sar (Search & rescue, la zona di ricerca e soccorso) ci sarebbero più morti in mare. Le Ong sono parte della società civile e non sono lo Stato”.

“È buono che ci sia la società civile in mezzo ad una crisi. Altrimenti si convertirebbe in una dittatura”.

Certo, ammette, “non rispondendo a padroni o a politiche concrete ma solo a fini solidali e umanitari avere dei testimoni in prima linea può costituire un rischio per i governi. Ma la priorità sono le persone da salvare. Da qui deve partire la riflessione per poi valutare la capacità del Paese, le risorse a disposizione”.

“Dobbiamo cambiare i meccanismi e le politiche ma prima di tutto bisogna salvare le vite”.