Mc 3,20-35
Con la domenica odierna si ritorna, dopo la lunga sospensione costituita da Quaresima, Tempo di Pasqua e solennità varie, al Tempo ordinario (ciclo B), accompagnato dalla proclamazione del Vangelo secondo Marco. Il passaggio selezionato, proveniente dal secondo arco narrativo del racconto (Mc 3,7-6,6a), presenta una tipica costruzione marciana detta “a incastonamento” (o “a sandwich”), perché tra l’uscire (vv. 20-21) e l’arrivare (vv. 31-35) dei familiari di Gesù, preoccupati del suo essere “fuori di sé”, è inserito un piccolo discorso parabolico rivolto agli scribi (vv. 22-30); tra cornice e contenuto (qui sta l’incastonamento) ci sono diversi richiami impliciti, primi fra tutti la questione dell’accoglienza o rifiuto dell’insegnamento inaudito di Gesù, la minaccia della divisione di una casa/regno e un’abile contrapposizione “dentro/fuori”, giocata sia sugli spazi fisici che sulle appartenenze relazionali.
Gesù, nell’episodio immediatamente precedente al nostro (cfr. Mc 3,13-19) ha appena istituito i Dodici e il lettore si domanda se questa nuova comunità di elezione (all’interno della quale, Marco lo annota subito, si profila già un traditore…) sostituisca o integri i più classici legami di sangue. Quando, quindi, vede in scena i parenti di Gesù (nel primo quadro indicati indistintamente come “i suoi”, hoi par’ autou – letteralmente “quelli attorno a lui”-, al v.21; nel secondo quadro elencati nella persona della madre – anonima in Marco come in Giovanni – e dei fratelli e sorelle di lui, v. 31ss), si interroga sul senso della loro affermazione, «È fuori di sé» (v. 21): essa, infatti, pare una presa di distanza, tanto più che anticipa il giudizio, ancora più negativo ma dello stesso tenore, degli scribi, i classici avversari marciani provenienti dalla problematica Gerusalemme (“Costui è posseduto da Beelzebùl”, v. 22).
La parabola che, dentro la casa, Gesù rivolge agli scribi (dopo averli chiamati a sé addirittura con lo stesso verbo proskalèo usato già per i discepoli) riguarda l’unità di un regno o di una famiglia (vv. 23-27), vertendo su una casa divisa che non può stare in piedi o che non può essere saccheggiata se prima non se ne lega il padrone. La logica di Gesù è la seguente: se egli scaccia Satana, come dicono gli scribi, allora non può essere Satana; se il suo fosse il regno di Satana, sarebbe diviso in se stesso e crollerebbe. Quindi aggiunge un detto singolare sull’unico peccato imperdonabile, ossia quello “contro lo Spirito Santo”, di difficile interpretazione. Esso sembra alludere, sostanzialmente, all’inaccoglienza o alla contrapposizione verso quanto lo Spirito dice, visto che il narratore motiva: “Poiché dicevano: “È posseduto da uno spirito impuro”” (v. 30). Sia nel timore dei suoi che nelle parole degli scribi, dunque, trapela lo stesso atteggiamento, ossia quello di chi non riconosce o addirittura nega che in Gesù agisca il soffio dello Spirito.
Il dramma latente è appunto nel fatto che, scribi a parte, l’incomprensione tocca le persone convenzionalmente più vicine a Gesù, quelli “attorno a lui”. Il brano gioca efficacemente tra quelli “di dentro” e quelli “di fuori”, fra uno spazio interno che dovrebbe essere quello intimo eppure accoglie folle di estranei giunti da ogni dove e il fuori dove rimangono quelli che, sebbene più vicini per legami di sangue, sembrano molto lontani da Gesù. Quelli che stanno dentro siedono attorno a lui; quelli che stanno fuori lo accusano lui di essere “fuori” di sé. La loro inaccoglienza si estenderà nel cap. 6 alla “famiglia” Nazareth.
Per questo Gesù ridefinisce i legami che contano: “chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre” (v. 35). La consanguineità alla quale Gesù ci dice di aspirare è solo questa: fare la volontà di Dio. Ciò che fa davvero la differenza tra un’appartenenza convenzionale e una fraternità autentica è la somiglianza a Gesù in quel tratto che Marco ci mostrerà, drammaticamente, nella notte dell’arresto, nel Getsemani, tra il sonno, il tradimento e l’abbandono dei discepoli, quando Gesù dirà al Padre suo e nostro: “non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (14,36).