Domenica 26 maggio – Santissima Trinità

Mt 28,16-20

Nella solennità della Santissima Trinità anno B la liturgia propone come Vangelo l’ultima “pagina” del racconto di Matteo, ossia il cosiddetto invio missionario universale che, a giudizio di molti studiosi, è il punto cui tutto il primo vangelo tende, sin da quella straordinaria incursione nella genealogia iniziale (Mt 1,1-17) di quattro donne straniere (Tamar, Racab, Rut e la moglie di Uria, ossia Betsabea), che sono proprio preludio dell’universalità di salvezza offerta a tutte le genti nel bambino che nasce.

Il Vangelo secondo Matteo, che ci ha riportati indietro nel tempo ben oltre il padre Abramo (1,1), sin ap’archès, dal principio della creazione dell’uomo e della donna (19,4.8), in più di un’occasione ci proietta nel futuro, alla venuta del Figlio dell’uomo (24,3.27.29.39) oppure alla fine dei tempi (13,39.40.49; 24,3; 28,20). Nell’epilogo di Mt 28 lo sguardo dei discepoli e dei lettori (noi compresi) è invitato proprio ad andare oltre la condizione presente, “fino alla fine del mondo”, ma non prima di averci fatto fare una ricapitolazione della vicenda trascorsa e di alcuni suoi luoghi e temi teologici fondamentali.

Il setting, dopo diversi capitoli ambientati a Gerusalemme, torna ad essere quello in cui Gesù è stato attivo per tanto tempo: in 28,16-20, infatti, il Risorto appare agli Undici (implicito riferimento al tradimento che ha rotto l’unità simbolica dei Dodici) in Galilea, su un monte indicato da Gesù: la regione galilaica è quella dove la missione di Gesù e la sequela dei discepoli hanno mosso i primi passi, mentre il monte in Matteo, richiamo alle teofanie veterotestamentarie, è anche luogo privilegiato dell’insegnamento del Maestro (cfr. Mt 5,1ss). Dopo la ricapitolazione dell’esperienza vissuta, ecco che emerge una netta proiezione nel futuro, con l’imperativo ad andare verso “tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo,  insegnando loro a osservare tutto ciò” (vv.19-20) che Gesù ha comandato: così Matteo sfida i suoi lettori ad andare oltre le sue stesse pagine, immaginando i primi passi nel mondo di una comunità evangelizzatrice e missionaria.

Con una certezza: “io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (v. 20): la promessa di Gesù è l’elemento di più forte inclusione nel racconto matteano. Quando, infatti, nel cap. 1 Matteo aveva narrato l’annuncio dell’angelo a Giuseppe circa la nascita di Gesù per opera dello Spirito, il narratore, con una delle sue classiche formule di compimento, aveva commentato: “Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi” (Mt 1,22-23), con una citazione esplicita da Is 7,14. Il nome del Messia, dunque, dice la qualità del modo di essere di Dio, il suo desiderio di comunione e prossimità con l’umanità e con la storia. Ma al Padre “Dio-con-noi” assomiglia il Figlio che viene “dallo Spirito Santo” ed è “io-con-voi”, in quella pericòresis che è la chiave stessa della teologia trinitaria e in cui la comunità è invitata a dimorare (“nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”) “tutti i giorni”.

Così, “passati” (la creazione, la storia di rivelazione del Dio di Israele, il ministero di Gesù e della vita con i discepoli) e “futuri” (quello prossimo dell’andare missionario e quello escatologico della salvezza universale) sono legati dalla presenza, presente e permanente, dell’Emmanuele.