Domenica 19 maggio – Pentecoste

Gv 15,26-27; 16,12-15

La discesa dello Spirito sui discepoli riuniti nel cenacolo di Gerusalemme cinquanta giorni dopo la Pasqua non viene riportata in nessuno dei quattro Vangeli canonici. Essa è raccontata, invece, dal libro degli Atti degli apostoli (2,1-13), oggetto della Prima lettura della celebrazione odierna: lì Luca prova a descrivere – senza alcuna pretesa di realismo o oggettività (il racconto è infatti, pieno di “come” e “simile a”…) – le manifestazioni esteriori che accompagnarono l’inabitazione dello Spirito sui discepoli (vento roboante, lingue di fuoco, glossolalia etc.) nel giorno di Pentecoste. In esso cade la celebrazione ebraica del dono della Torah agli uomini, celebrazione che si era già sovrapposta a una antica festa di pellegrinaggio (la “festa delle settimane”, Shavuot; cfr. Es 34,22; Num 28,26). Luca, contestualizzando la discesa dello Spirito proprio nel giorno che ricorda la promulgazione della legge divina sul Sinai, intende così suggellare l’inizio di una nuova alleanza tra Dio e la comunità riunita nel cenacolo (figura della intera chiesa) attraverso l’effusione dello Spirito promesso da Gesù: Pentecoste, infatti, è evento fondatore per la nuova chiesa quanto lo fu per Israele la manifestazione di YHWH a Mosè; la chiesa viene costituita qui, una volta e per tutte, come nuovo popolo dell’alleanza, in virtù del dono dello Spirito seguito all’ascensione del Risorto.

Il Vangelo, pertanto, ci fa fare un piccolo passo “indietro” ritornando ai discorsi d’addio del racconto di Giovanni, con una selezione di passaggi dai capp. 15 e 16 in cui Gesù, prima di lasciare i suoi, promette il dono dello Spirito “consolatore”: Paràclito (paràkletos) significa infatti “chiamato presso, invocato” (dal verso parakalèo, “chiamare a sé, chiamare in aiuto”) e quindi “consolatore”, appunto; chi soccorre, del resto, chi risponde a una chiamata di aiuto è colui che sta con chi è solo (questa l’etimologia di “con-solare”) e spezza la solitudine dell’altro, offrendogli una inedita speranza.

Per due volte lo Spirito è chiamato anche “Spirito della verità”, perché trasmette ai discepoli quanto ascolta dal Padre e da Gesù: svolge, cioè, la stessa funzione che Gesù, rivelatore e narratore del Padre (cfr. Gv 1,18), ha svolto durante la sua esistenza terrena (Gv 15,15: “tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi”). Del resto, Pentecoste è anche celebrazione del miracolo della Parola, una parola che unisce e fa comunicare il piano umano e quello divino e ribalta l’incomprensione babelica (Gen 11,1-9).

Gesù, da pastore attento, sa che il peso di quanto annuncia può essere troppo grave per i discepoli, ancora incapaci di riconoscere i segni della gloria in un futuro imminente di separazione e di invisibilità. Per questo prova a rinfrancarne i cuori avvolgendoli, lessicalmente e sintatticamente, nella comunione trinitaria di intenti e di azione, affinché l’apparente vuoto della Sua assenza sia ricolmato dall’eloquenza efficace dello Spirito. Del resto, proprio così è spiegata l’esperienza che i discepoli fanno a Pentecoste: un’esperienza in primo luogo non solo individuale ma collettiva, e poi un’esperienza che sazia, che soddisfa, perché lo Spirito ricolma (cfr. già nel Vangelo lucano tutti i personaggi “saziati dallo Spirito”, come Giovanni Battista, Elisabetta, Maria, Zaccaria) e, a differenza di tutti i beni del mondo, non si misura.