Secondo Luca, Gesù risorto si manifesta alla comunità riunita nello stesso giorno della visita delle donne al sepolcro vuoto e dell’apparizione ai due di Emmaus. Li sentiamo ancora intenti ad annunciare quanto sperimentato e riconosciuto nello spezzare del pane che, ecco, è lo stesso Gesù risorto a farsi presente in mezzo a loro, stavolta senza la dinamica di nascondimento/riconoscimento avvenuta lungo la via. Eppure, anche questa scena ci parla di una palese difficoltà dei discepoli a riconoscere nel Risorto il Nazareno, nonostante il saluto iniziale, «Pace a voi» (v. 37). In quell’augurio di pace, lontano da un banale convenevole, risuona la shalom biblica, l’invocazione della benedizione di Dio, il desiderio di bene per la vita dell’altro. Ma i discepoli sono ancora nel terrore e nella paura e non discriminano: credono di avere davanti uno spirito.
Per questo c’è bisogno addirittura di un supplemento di prove. Se per i due di Emmaus erano state le spiegazioni della Scrittura a scaldare il cuore e lo spezzare del pane ad aprire gli occhi, qui, per uscire dalla confusione, servono ulteriori concretezza e carnalità: «carne ed ossa», dice Gesù (v. 39). Questa espressione, per noi così familiare, riscatta il valore della corporeità umana a fronte di uno spiritualismo disincarnato e la riconsegna alla memoria come lo spazio, il tramite concreto dell’esperienza, delle relazioni, dell’amicizia. Poi Gesù mostra le mani e i piedi (v. 40). E, sebbene il racconto non parli di segni della crocifissione a differenza di quello giovanneo, quelle mani e quei piedi portano comunque le stigmate dell’esperienza vissuta, dall’inizio alla fine: strada, guarigioni, insegnamenti, moltiplicazioni, crocifissione. Com’è bello, in questa prima giornata di incontri con il Risorto, che tutto l’essere umano, corpo e anima, carne e ossa, intelligenza, pancia e cuore, vengano chiamati a riconoscere e testimoniare che la relazione sperimentata è ancora viva ed efficace e non è stata interrotta dalla morte!
Ma ancora non basta, perché stavolta è la gioia grande, segno lucano di un’esperienza di grazia, a stordire le donne e gli uomini riuniti nel cenacolo. Così Gesù passa al nutrimento, al cibo, a quel pesce arrostito mangiato davanti ai loro occhi chissà quante volte. E aggiunge, infine, la parola, che ricorda, spiega e che «apre la mente». Come fatto con quelli di Emmaus, Gesù riprende tutto quanto di lui era stato preannunciato nelle Scritture (nella “classica” tripartizione della tradizione di Israele, la legge, i profeti e gli altri scritti, qui rappresentati per sineddoche dai salmi), li rimette in sintonia con quella storia di salvezza per Israele e per tutte le genti che Luca ha cuore sin dagli esordi del suo vangelo (cfr. le parole dell’anziano Simeone in Lc 2,30-32). La passione, la morte, la resurrezione e l’annuncio di conversione e perdono esteso a tutti i popoli, iniziando da Gerusalemme (e proprio nel tempio lasceremo questi discepoli col cuore festante, cfr. Lc 24,52): di questo le donne e gli uomini del cenacolo, aiutati dallo Spirito, saranno chiamati ad essere testimoni quando, smesso di contemplare il cielo dell’ascensione, inizieranno a percorrere le strade del mondo portando il nome di Gesù (cfr. il libro degli Atti).
Tutto l’uomo – carne, ossa, occhi, viscere, mani, piedi – e tutta la sua storia – incontri, sequela, sofferenza, finanche la morte – vengono riscattati nel giorno del Signore. Come a dire: non si prende sul serio l’annuncio di Pasqua se non si prende sul serio l’Incarnazione. Così la mente si apre e il cuore si riempie di gioia.