Dal Vangelo secondo Giovanni 10, 11-18
Ci sono molti modi in cui il Gesù giovanneo parla di sé, molte metafore con le quali, attraverso la ricorrente formula ègo èimi (“io sono”), prova a farci a entrare nel suo modo di relazionarsi al mondo e ai suoi. Una di queste metafore è la celebre immagine del pastore buono (o “bello”) di Gv 10,11, dopo che Gesù si è già indentificato come la “porta delle pecore” in Gv 10,7. Il discorso è iniziato come sua risposta, anche molto polemica, ai farisei che lo interrogano dopo la guarigione del cieco nato (Gv 9,1-12) durante la festa dei Tabernacoli. Li condanna per la loro arroganza e pronuncia una parabola sul modo di entrare nell’ovile che essi non capiscono (cfr. Gv 10,1-6). Quindi si presenta, appunto, come porta dell’ovile e pastore a confronto con altre figure (ladri, banditi e mercenari), che non sembrano affatto disposte a mettere a rischio la propria vita per il bene del gregge a differenza sua, di lui che – a motivo della sua unione con il Padre (vv. 17-18) – dà la propria vita per le pecore (v. 15).
Il Primo Testamento, in particolare nei testi profetici, accusa frequentemente i capi infedeli d’Israele rappresentandoli come cattivi pastori che lasciano il gregge in balia dei lupi, mentre solo il Signore resta il pastore del suo popolo. Tuttavia, l’idea di autodonazione del pastore è una peculiarità delle parole di Gesù che non ha precedenza in altri testi messianici che pure usano la stessa immagine; è una particolarità di Gesù, radicata nella qualità e intensità del suo rapporto con il Padre (vv. 14-15. 17-18): proprio la reciprocità della conoscenza tra Gesù e il Padre suo fonda e rende stabile la corrispondenza di Gesù con il suo gregge, l’intimità, l’appartenenza.
Perché tutto, qui, si gioca sull’appartenenza. Ma sull’appartenenza buona e bella, non sulla volontà di possesso. La contrapposizione tra pastore e mercenario si misura proprio sulla distanza tra colui cui le pecore appartengono e chi non ha interessi personali in gioco, perché è, al più, un salariato (se non addirittura un ladro) e quindi non vuole rischiare nulla, tanto meno la propria vita, per chi gli è stato affidato.
Che differenza fa sentire, all’ingresso della casa/ovile, la voce nota e familiare di una guida sicura, di chi ci ha protetto e garantito la vita, oppure quella di un estraneo che prova a spingerci fuori solo per ingannarci e rapirci? Ce lo testimonierà Maria Maddalena quando, nel giardino della risurrezione, continuerà a vagare disperata in cerca del corpo del suo Signore fino a che proprio il suo maestro, scambiato per un giardiniere, la chiamerà per nome, “Maria!”, ed ella, sentitasi riconosciuta, lo riconoscerà finalmente, chiamandolo: “Maestro mio!” (cfr. Gv 20,16).
Ed è bello pensare che proprio questa conoscenza intima e familiare riguardi ogni pecora del gregge, ciascuna a suo modo, senza che questo generi alcuna rivalità interna, ma anzi permettendo che il gregge sia “uno” e addirittura preparando l’ingresso ad altri, di fuori, che il pastore ha già in cuore di cercare e guidare (v.16).
Quanta differenza fa, nella nostra vita personale e collettiva, individuale e pubblica, saperci nelle mani di un mercenario o di un pastore buono, sentirci alla stregua di bestie senza guida e condotte alla dispersione o alla morte oppure come un solo gregge condotto verso pascoli erbosi ed acque tranquille (Sal 23)…