Domenica 24 settembre

In tempi di crisi anche l’imprenditoria è costretta allo straordinario: ci s’inventano nuove strategie lavorative, si riorganizza il personale, si cerca di perfezionare l’organigramma dell’azienda. Sempre nel massimo rispetto – almeno nelle intenzioni – della sorte degli operai.

Tra tagli e ridimensionamenti, cassa integrazione e spostamento delle pensioni, sorprende che in tempo di vendemmia ci sia una vigna dove il contratto lavorativo è davvero sui generis: al termine della giornata non contano le ore lavorative ma il rispetto dello stipendio pattuito. Roba da far saltare dalla sedia qualsiasi sindacalista!

In verità, in questa sconcertante parabola dei servi dell’ultima ora, il Signore ci allerta contro il rischio di una manipolazione del suo Vangelo che viene fuori dalla ricompensa promessa agli operai: questa non si misura in base alla quantità del lavoro svolto ma è il frutto della missione vissuta con gli stessi sentimenti di Dio. Chi serve amando con lo stesso cuore di Gesù è riflesso della sua immagine in mezzo agli uomini. Non importa quanto tempo una persona abbia seguito Dio o quante buone azioni abbia compiuto, la salvezza è e resta un dono gratuito di Dio.

Tuttavia, la parabola mette anche in evidenza la reazione umana alla generosità di Dio. Alcune persone potrebbero sentirsi ingiustamente trattate se vedono che altri ricevono la stessa grazia, anche se sono entrati in relazione con Dio in un momento diverso. In questo modo, la parabola ci sfida a riflettere sulla nostra comprensione della generosità divina e sulla nostra capacità di accogliere la grazia senza invidie o gelosie.

La vita non è un accumulo di crediti, ma l’opportunità che ci è data di dire grazie. Concepirla come credito vuol dire uscire dalla grazia, ignorare la croce, mettersi al centro, essere fuori dalla salvezza. L’uguaglianza davanti al “signore della vigna” significa che tutto è grazia e che nessuno può vantare titoli di merito. Non vale di più essere uomo o donna, ebreo o gentile, asiatico o europeo, e perfino battezzato o non battezzato, perché il Signore anche oggi sa apprezzare molto di più i samaritani abitati dalla misericordia che i fanatici della legge.

Siamo, dunque, chiamati a far diventare carne, lievito, luce i pensieri di Dio che sovrastano i nostri pensieri, e percorrere le sue vie che divergono dalle nostre, non per essere schiacciati, ma per essere salvati dalla mediocrità e dal vagabondaggio inconcludente. A ragione di ciò, il filosofo danese Kierkegaard diceva che “i cristiani dovrebbero vivere la loro fede con lo stile dell’innamorato, non con quello del ragioniere!”. E aggiungeva il cardinale Martini: “La giustizia umana è dare a ciascuno il suo; quella di Dio è dare a ciascuno il meglio. L’uomo ragiona per equivalenza, Dio per eccedenza!”.

E allora non impoveriamo Dio della imprevedibilità del suo amore, piuttosto incantiamoci a contemplare la sua sproporzione, il suo eccesso nell’amare anche ciascuno di noi che, poco o tanto, apparteniamo alla categoria degli operai dell’undicesima ora. Certo, l’annullamento delle distanze, dei gradi di merito ci provoca disagio. Ecco perché l’interrogativo del padrone lascia la parabola sospesa, in attesa di risposta. Sta a ciascuno di noi scrivere la conclusione: torneremo a casa arrabbiati, o accetteremo di godere della gioia del “signore della vigna” e di vederla condivisa ai nuovi operai che via via si sono aggiunti? Siamo mercenari o invitati a nozze?