In questa domenica ascoltiamo un brano del Vangelo con una prima parte molto radicale. Gesù, infatti, inizia dicendo: “chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me”. La parola “degno” è una parola molto importante. Non tanto nel senso etico di moralmente adatto; “adatto” sì, ma nello stesso modo in cui una spina si infila nella presa. “Adatto” vuol dire che chi rimane nella vita che prende dalla propria carne, dalla propria storia, dalla propria natura, dai propri genitori ha un tipo di vita che “non si adatta”, ovvero non basterà per seguire Gesù. Ci sono due vite: una si prende dai propri genitori, la vita biologica, e una che si prende, come dice Gesù a Nicodemo nel Vangelo di Giovanni, rinascendo dall’Alto. Senza questa vita la croce di ogni giorno, cioè la vita di tutti i giorni, i fatti di ogni giorno, non si riescono a vivere: la vita che si riceve dalla carne non è una vita eterna, è una vita limitata.
Gesù, poi, aggiunge: “chi avrà salvato la propria vita la perderà e chi avrà perduto la propria vita la troverà”, questo per dire che c’è una vita da perdere e una vita da trovare e se non si lascia l’una non si può entrare nell’altra. La vita che viene dalla propria storia è un adattatore che non va bene per entrare nella presa della vita nuova: o si vive secondo una vita da figli della propria storia o si vive secondo la vita dei figli di Dio; c’è una forma carnale e una forma spirituale d’essere figli, d’essere sposi, d’essere genitori.
Tutti ci rendiamo conto che prima o poi arriva un momento in cui è necessario passare dalla vita infantile alla vita adulta. È quello il momento in cui non si può più prendere la vita dagli altri, perché chiamati a donarla: o si sceglie di essere prensili e di attaccare il proprio respiratore esistenziale a tutto e a tutti o si sceglie di essere generosi, cioè di donarla la vita. Questo è l’amore vero, l’amore Pasquale che passa per la croce.
Sono tanti i momenti in cui la nostra vita o passa per le mani di Dio o rimane nelle nostre e dobbiamo continuamente trattenerla e per difenderla, quello è proprio il momento in cui la perdiamo. Invece, come ci annuncia la seconda parte del Vangelo, la nostra stessa vita può diventare un’accoglienza feconda in nome di Dio.
Tutto questo viene richiamato anche nella Prima Lettura. Il profeta Eliseo viene accolto da una donna che gli prepara una stanza al piano superiore – un’espressione che ci ricorderà sicuramente l’Ultima Cena – che è l’immagine della profezia, il luogo più alto da cui guardare la Storia. Accogliendo il profeta questa donna accoglie la fecondità e la benedizione, perché quando accogliamo la profezia vediamo che Dio è generoso e l’accoglienza cura la sterilità e la rende feconda. Anche da un bicchiere d’acqua fresca, si conclude così il Vangelo, arriva la ricompensa del profeta.
Nel Discorso della Montagna, quando Gesù parla del digiuno, della preghiera e dell’elemosina, l’evangelista Matteo parla proprio della ricompensa che il Padre, che vede nel segreto, sa dare. C’è una ricompensa di chi vive per farsi vedere dagli uomini ed è una ricompensa che non dura, c’è una ricompensa di chi vive per fede, di chi si lascia, come si dice nella Seconda Lettura:” seppellire nella morte di Cristo per risorgere con Lui a vita nuova”
Don Oreste Benzi ad una famiglia che lo chiamò per dirgli: “Don, forse abbiamo fatto il passo più lungo della gamba” lui chiese, perché:” abbiamo accolto una bambina sordomuta e cieca” Don Oreste rispose: “avete fatto bene, perché questa bambina vi insegnerà a sentire come sente un sordo, a parlare come parla un muto e a vedere come vede un cieco. Porterà a voi la benedizione di Dio”. Ecco, quando accogliamo radicalmente il progetto di Dio su di noi e la profezia che ci manda il Signore tutto questo lo ritroveremo anche nella croce che ci chiama a trascenderci e a fidarci.
La croce non ci piace e non ci compiace, ma ci fa diventare adulti, di una maturità che solo Dio ci sa regalare ed è nascosta in ogni atto di fede e di accoglienza che ci rende veramente fecondi.