Il brano evangelico di questa domenica può essere letto a partire da quel particolare e delicato equilibrio che sussiste tra dono e responsabilità. Il dono della vigna che esprime l’amore di Dio che intesse una relazione piena di passione con l’uomo, e la responsabilità di sentirsi custodi di un’opera che non ci appartiene.
Purtroppo la gratitudine è cancellata dall’avidità, cioè dalla presunzione di possedere. Non è forse questo il peccato originale? Ovvero l’irresponsabilità, vale a dire l’incapacità di rispondere al dono di Dio con opere di giustizia?
Quando non si cresce in responsabilità, cioè non si matura gradualmente nella logica del servizio, il dono diventa un danno a se stessi e agli altri. È il rifiuto della “pietra angolare”, della verità del cuore, del dono di coscienza, che ci fa ragionare unicamente in termini legalistici di diritti e doveri, di giustizia e ingiustizia, di profitti e di perdite. In questa deriva chi ne paga le conseguenze sono le relazioni che si deteriorano e con esse le persone che s’incattiviscono sempre di più.
E di fronte ad una morale debole, impossibilitata a riconoscere il bene e il male, al “senso di colpa” tipico della società della disciplina subentra il “senso di inadeguatezza”, tipico della società dell’efficienza, per ciò che si potrebbe fare e non si è in grado di fare secondo le attese altrui, a partire dalle quali ciascuno misura il valore di se stesso.
Parlando ai Filippesi l’Apostolo Paolo esorta a coltivare pensieri positivi, che sono gli stessi di Dio: l’amore, che si esprime nel linguaggio concreto della carità praticata, diventa il punto d’innesto e di comunione con Dio in modo che dalla conversione dei cuori possano nascere germogli di speranza.
Qualche tempo fa Papa Francesco ha paragonato la vigna al Sinodo e il ruolo dei sinodali a quello degli operai nella vigna. Le assemblee sinodali servono per coltivare e custodire meglio la vigna del Signore, per cooperare al suo sogno, al suo progetto d’amore sul suo popolo. Come i vignaioli cattivi del Vangelo, anche noi possiamo subire la tentazione di derubare il padrone della vigna, oppure respingere questa ipocrita volontà di possesso coltivando la vigna con libertà, creatività e operosità.
Tutto questo è in linea con la conclusione della parabola che mette in luce la forza critica della parola di Gesù. Non si tratta di comprendere una teoria, ma di accogliere una persona. Ecco perché i capi, contro i quali direttamente è rivolto il racconto, comprendono il suo significato polemico ma non riescono ad accogliere la sua proposta salvifica. La parola di Gesù esige una decisione. Non esiste neutralità davanti alla sua persona. La parola di Gesù chiama a responsabilità, provoca e richiede necessariamente una nostra risposta.
“Il regno di Dio sarà dato a un popolo che ne produca i frutti”. Questo monito di Gesù è quanto mai potente e per certi versi imbarazzante, se pensiamo solo per un attimo alle nostre piccole o grandi lotte di potere nelle nostre comunità e nella Chiesa. Ciò che Dio si aspetta alla fine, pure nella fragilità dei nostri peccati e talvolta nell’inconsistenza delle nostre relazioni, è una vigna che non maturi più grappoli rossi di sangue e amari di tristezza, ma grappoli caldi di sole e ricchi di fraternità; una chiesa famiglia che non sia guerra di possessi, battaglie di potere, ma produca una vendemmia di bontà, un frutto di giustizia, acini di Dio tra noi.