Il Vangelo della quarta domenica del tempo ordinario si apre sulla pagina più ambita ed amata di tutta la letteratura biblica, sia neo che veterotestamentaria: le Beatitudini. C’è ragione per dire che esse costituiscano il sogno e l’approdo di tutta la Bibbia, dato che la felicità è auspicio, desiderio, profezia, annuncio in ogni sillaba della Parola. Non per nulla Gesù dà inizio al suo primo, lungo discorso, nel primo vangelo canonico, proprio con i macarismi, vale a dire le beatitudini. Dopo aver chiamato e preso con sé i primi quattro discepoli (cf Mt 4,18-22) Egli aveva percorso già tutta la Galilea insegnando e guarendo i malati, al punto che la sua fama aveva valicato i confini di quella regione verso la Siria, la Giudea, la Decapoli e oltre il Giordano. Possiamo immaginare che in quelle folle che lo seguivano, con cui si apre il capitolo quinto di Matteo (v.1), vi sia rappresentata un’umanità “universale” in cerca di una risposta a tante domande, di acqua per le seti non sedate e di cibo per vecchie miserie ma anche per nuove speranze. Il gesto di Gesù di salire sul monte e sedersi a insegnare è mosso proprio dalla presenza delle folle che non demordono dal cercarlo e seguirlo. Una realtà che interpreta la missione di Gesù come una riposta al “grido” della gente, al di là dell’identità di ciascuno. Immaginiamo queste folle simili a quelle che, nel Vangelo di Marco, corrono dietro a Gesù – che sale su una barca con i suoi discepoli – superandolo in velocità e provocando in lui un moto di misericordia perché sono: “come pecore senza un pastore” (cf Mc 6,34). Anche lì Gesù nutre di parole – prima che di pane – le folle affannate e smarrite, proprio come fa qui, su questo monte delle Beatitudini. Si tratta, infatti, di un cibo di parole paragonabile a quello che Mosè diede al popolo d’Israele al Sinai quando proclamò per esso i dieci comandamenti che, in lingua ebraica, sono, appunto: debarim, “parole”. Dieci parole, quelle del pastore Mosè, fatte di precetti e divieti da ascoltare e osservare per avere la vita che, qui, Gesù – “bel pastore” delle pecore che sono salite dietro a lui sul monte – completa, rivela, realizza, propone come vie di felicità da abbracciare. Tutto ciò che Israele, per generazioni e generazioni, aveva desiderato e per cui aveva resistito, lottato e in cui aveva instancabilmente creduto specialmente nella fede dei suoi profeti: la libertà (=il regno di Dio), la consolazione, una terra da abitare, la misericordia, l’emancipazione dall’oppressione, la purezza della visione di Dio e la dignità di essere chiamati “figli di Dio”, tutto ciò – dice Gesù – è possibile, anzi, è un presente gravido di futuro. Le folle giudaiche conoscevano delle vie di beatitudine, il Salterio ne apriva diverse: “Il Signore rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati” recita il Salmo 146 nella liturgia odierna. Anche il libro del Siracide elenca dieci vie di beatitudine: “Nove situazioni ritengo felici nel mio cuore, la decima la dirò con parole: un uomo allietato dai figli, chi vede da vivo la caduta dei suoi nemici; felice chi vive con una moglie assennata (…) chi non ha peccato con la sua lingua (…) quanto è grande chi ha trovato la sapienza, ma nessuno supera chi teme il Signore!” (25,7-10). Ma se la felicità promessa dal Siracide sta nella vita terrena, quella di Gesù è proiettata “nel Regno dei cieli”; è una felicità “sconfinata” che nasce dalla com-passione, la con-divisione, la com-unione con l’indigenza, il dolore, l’insulto, la violenza, la persecuzione che “le folle”, che gli umani tutti – e non solo i giudei –sperimentano. È perché Gesù si fa povero che i poveri diventano re; perché Gesù vive l’afflizione, che gli afflitti sono già consolati; perché Gesù si mette nella pelle di Abele, che permette ai miti e ai non violenti di diventare gli eredi della terra! Con la pronuncia delle beatitudini Gesù prepara i suoi discepoli a capire cosa accadrà l’ultimo giorno quando salirà su un altro monte, quello della Croce: dal Calvario e da quell’ultima stolta e scandalosa “lezione di felicità” potrà essere illuminata anche la prima, quella che oggi leggiamo spiazzati anche noi, ben sapendo che siamo corresponsabili della credibilità della stessa.