Siamo dalla Liturgia – al cuore di questa dura quaresima – sfidati alla gioia. “Laetare Jerusalem” è l’antifona di Ingresso all’Eucaristia, che audacemente dà il tono a questa domenica: “Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa quanti la amate. Sfavillate di gioia con essa voi tutti che avete partecipato al suo lutto. Così succhierete al suo petto e vi sazierete delle sue consolazioni; succhierete, deliziandovi, all’abbondanza del suo seno”. Il testo (Is 66,10s) è tratto da una pagina profetica di significato epocale. Nel disastro umano, la promessa di una nuova creazione: tale è il senso dell’appello alla gioia del profeta, che fa da portale d’ingresso a questa domenica. Viene evocata una visione di stridente contrasto coi tempi duri che viviamo: una donna madre che lieta e generosa allatta. È la Gerusalemme nuova, ma più profondamente ancora: è Dio stesso che il profeticamente è rappresenta come madre: “Come una madre io vi consolerò” (Is 66,13). E in questa stessa domenica di metà quaresima e al colmo di una guerra infame – quasi paradossale inclusione -, ascoltiamo il Vangelo della “madre assente” – è così che qualcuno ha suggerito di rinominare la parabola di Lc 15,11-32. Fuoco del Vangelo di Luca.
La letizia, dunque, è annunciata in gratuità totale – e solo gratuitamente può essere accolta -; nutrirsene è atteggiamento profetico di una nuova umanità, come il bimbo si nutre del latte materno: dalla manna del deserto dell’esodo all’apocalisse, è così (Ap 2,6.17; 22,17). Non per niente Gesù, sulla soglia della sua passione, nutre i suoi del suo corpo e sangue: l’atto che rigenera l’umano, più forte di tutta la violenza che è nel mondo, è offerto come il gratuito gesto di una madre che si china a nutrire il suo piccolo. Così è l’immagine audace della gioia cristiana cantata nell’antifona d’Ingresso – che mitemente resiste alla prepotenza dei segni contrari di decreazione, e sfida anche i più crudi scenari di guerra.
Sentimento di pura grazia, quello che apre la liturgia di questa domenica di metà quaresima, germinato nel duro deserto dei rimpatriati: il tempo del lutto, ovvero della disperazione, è esorcizzato, lasciato definitivamente alle spalle.
Ed ecco, introdotto dal canto profetico, irrompere al cuore dell’Eucaristia la parabola del padre che aspetta – tenacemente, pazientemente, con esagerato amore – i suoi figli. Il “Vangelo del Vangelo” di Luca, come è stato definito. È, dal punto di vista del disegno narrativo, il cuore pulsante della sua narrazione. In Luca infatti tutto ha inizio, e tutto trova via per il compimento – sempre di nuovo da conseguire -, nella gioia divina di fare grazia, cui corrisponde la gioia umana di riceverla.
Gesù accoglie i peccatori e mangia con loro, e questo gli attira critiche e mormorazioni. È uno dei punti di costante tensione – dall’inizio alla fine – fra Gesù e i suoi avversari, come tutto il Vangelo testimonia: Gesù è – essi mormorano – un personaggio imbarazzante, un gaudente, un galileo poco rigoroso.
Così, nelle tre parabole di Lc 15, Gesù espone mirabilmente la sua credibilità. Più profondamente, rivela Dio, suo “Abbà”. E dunque, nel modo di ascoltare la parabola -, che rimane aperta – si gioca anche la verità della nostra sequela.
In tutte e tre le parabole il messaggio unico è la gratuita gioia di Dio: la gioia del ritrovamento del prezioso “tu”, il figlio generato per grazia e amato perdutamente, assorbe ogni altro sentire. La conversione del peccatore è vista dalla parte di Dio. Uno strano modo di parlare della conversione, ma è quello generativo di futuro. Anche oggi.
Il peccato è pensare alla “casa” comune come a una costrizione, la presenza del padre come ingombrante e mortificante. Questo è il vero peccato, la radice di tutte le infedeltà cui ogni relazione deviata coopera. E per questo, il cammino di ritorno inizia con un mutamento interiore «rientrò in se stesso»: il figlio comprende per la prima volta il mistero della casa. E compie il passo decisivo, ritornando – in sé stesso – alla casa. Ma non conosce ancora suo padre, e forse non ha mai conosciuto sua madre: così è convinto di aver perso l’amore generativo e di dover pertanto meritarselo, come un servo. Ma l’amore che genera è prima, precede e dissolve ogni storto pensiero sulla conversione. Nella mano “materna” del padre raffigurato da Rembrandt nella tela omonima, si riflette la grande rivelazione della maternità di Dio: le mani che accolgono la vita smarrita, che la sottraggono all’esperienza dell’assoluto smarrimento, sono mani al tempo stesso di madre e di padre.
Anche il figlio osservante non conosce il padre. Anche a lui è mancata la madre a disporre la casa. E così mai ha capito che lo stare nella casa comune è una grazia. Ragiona come se la fedeltà fosse un duro dovere. Assomiglia agli scribi e farisei che mormoravano perché Gesù accoglieva i peccatori. Lo stesso amore “materno” che ha spinto il padre a correre incontro al figlio minore lo spinge a uscire incontro al figlio maggiore, a chiamarlo per nome, a pregare invitandolo a far festa insieme: perché egli manca a che la casa sia in festa. Il padre anela a riunire i suoi figli. Così è Dio. La parabola perciò rimane sospesa: finché ognuno si riconosca figlio cercato e le dia compimento.
Al cuore di questa dura quaresima, siamo così chiamati a elaborare il sentimento, singolarmente evangelico, della gioia di Dio. Non è facile, infatti, affidarsi alla gioia; solo la semplicità dei piccoli (non per niente, in Lc 1,41, Giovanni in grembo alla madre è il primo a gioire) e dei poveri aderisce.
Sentimento gratuito e necessario, frutto dello Spirito, la gioia si rivela così come il comandamento della vita. La vita che è come una parabola di carestie e di ritorni “a casa”… “Bisognava gioire”, dice il padre. Questa “necessità” – della stessa qualità della necessità della croce – audace irrompe, mitemente ci contesta, ci fa rinascere nuova creatura. “Bisogna gioire”: tutto qui sta lo scioglimento dell’intoppo. Ma chi si arrende, quale spazio facciamo a questa “necessità”?
“Laetare”: indizione di universale cammino verso la gioia che dalla parabola deborda nel nostro oggi. Oggi segnato da una sorta di esilio – questa particolare dispersione della guerra che priva tutti di una casa comune – è dolore, gelo, ostacoli, erramenti. Ebbene, la Liturgia inaugura profeticamente scenari di novità inaudita. Lo stesso creato ci insegna lo stupore beato di aprirsi alla gioia: dalla nudità desolante, dal gelo, dalla spogliazione dell’inverno, all’umile godere di essere gratuitamente attesi, nutriti, rivestiti. È l’appello di questa Eucaristia, chiamata che ci coinvolge intensamente, proprio al cuore della sete di cose nuove che ciascuno dolorosamente custodisce in sé, al cuore della trepidazione per la grande carestia che ci attraversa: e presto sarà Pasqua.