“A voi che ascoltate, dico…”: se le Beatitudini sono il cuore del Vangelo, ebbene il comandamento evangelico dell’amore ai nemici è il cuore del cuore. È l’essenza radicolare, rugosa, intessuta di storie – di carne e di cielo -, da cui emana il profumo della felicità evangelica che Gesù ha appena annunciato, nel discorso della pianura. È come la corrispondenza del cuore umano al Dono sovrabbondante della felicità di Dio: umile grazia che risponde alla grazia. Senza tendere a questa pienezza, come dirsi discepoli di Gesù? E d’altra parte, solo immergendosi a lungo, profondamente, nella felicità annunciata da Gesù con la sua stessa esistenza di uomo per gli altri, amante fino alla fine, fino al perdono e alla croce – perciò oltre la morte – si può intendere come Vangelo (e non come utopia) l’appello ad amare gratuitamente. Così ci ama il Misericordioso.
Impossibile all’uomo, questa intensità dell’amore, grazia totale. Impossibile rispondere alla violenza con la mitezza, all’ostilità con l’amabilità: eppure così nasce l’uomo nuovo. Impossibile il perdono, come obiettano a Gesù i dottori e i sapienti farisei: “Chi può perdonare se non Dio solo?” (Mc 2,7). Solo Dio, solo l’innocente, può perdonare. Per altri sarebbe superbia. Dunque solo chi ha accolto su di sé la ricchezza della povertà di Cristo, la sua beatitudine di Povero che, nella nudità della croce, perdona gli uccisori; e solo chi la croce l’ha così assimilata da gustarne il sapore unico di gratuità, può osare incamminarsi su questo sentiero del Comandamento che s’inerpica verso l’ignoto.
Gli evangelisti e gli altri autori neo testamentari hanno ciascuno un loro stile nell’esprimere “il” comandamento: penso allo splendido inno di 1Cor 13, o Gv 15, agl’innumerevoli testi o espressioni (Ebr 10,24 ove si auspica il parossismo dell’agape)… Luca lo elabora soprattutto nelle parabole tipicamente sue (il samaritano, il padre misericordioso). Commentare questo Vangelo è arduo: meglio che l’esegeta o il predicatore, lo può la storia di quei discepoli di Gesù che a prezzo della vita l’hanno seguito. Dal primo martire, Stefano (At 7,60), attraverso secoli di vita cristiana, fino ai contemporanei monaci di Tibhirine; e fino al più piccolo anonimo profugo in cammino cercando fraternità.
L’amore estremo espresso anzitutto nei semplici passi di una sofferta quotidianità, e infine come parola ultima – testamentaria.
Non è di tutti i momenti della vita esprimere l’intensità esigente dell’amore gratuito, la buona disposizione verso l’altro che mi sta di fronte come il nemico. Bisogna prepararne l’ora nella preghiera. Silvano dell’Athos, assetato della parola del perdono, pregava: “Signore, insegnami che cosa devo fare perché la mia anima diventi umile per amare i nemici”. E riceve questa risposta: “Tieni il tuo spirito agli inferi, e non disperare!”. Inferi è il luogo del corpo a corpo con la propria, l’umana, terrosità. Senza temere la propria fragilità e l’abisso della propria impotenza. Solo nel profondo degl’inferi nasce l’umile speranza generata dall’amore di Dio.
La forza per mantenere la rotta verso l’amore gratuito, è la preghiera; anzitutto i Salmi che raccolgono secoli di agonica ricerca della parola del perdono:
“Vedo che il nostro modo particolare di esistere – monaci cenobiti – ebbene, tiene, dura, e questo ci mantiene saldi. Le parole dei salmi resistono, fanno corpo con la situazione di violenza, di angoscia, di menzogna e di ingiustizia. Sì, ci sono dei nemici. Non possiamo essere obbligati a dire troppo in fretta che li amiamo, senza offendere la memoria delle vittime il cui numero cresce ogni giorno. “Dio santo! Dio forte! Vieni a salvarci! Vieni presto in nostro aiuto!” (fr. Christian De Chergé). “Il peggio, Gesù non l’ha fuggito. L’ha affrontato, l’ha desiderato fino all’angoscia e alla ribellione. Sulla croce, l’ha accettato come una tavola imbandita – preparata – da Dio, suo Padre, “di fronte al nemico” (Sal 22,5). Ci consegna così il soffio della speranza”, nella parola del perdono.
E frère Luc, monaco di Tibhirine, alla vigilia del sequestro mortale, scrive:
“Non penso che la violenza possa estirpare la violenza. Non possiamo esistere come uomini se non accettando di farci immagine dell’Amore come si è manifestato nel Cristo che, giusto, ha voluto subire la sorte dell’ingiusto (24 marzo 1996)”.
Il testamento di fr Christian, vicino a noi nei giorni, sintetizza con luminosità estrema il senso della parola del perdono:
“Venuto il momento, vorrei avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nel tempo stesso di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito…. . Di questa vita perduta, totalmente mia, e totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera … e in questo grazie in cui tutto è detto, includo anche te, amico dell’ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo grazie e questo ad-Dio. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due. Amen! Inšallah.” (PFO, 231).
“Non gli hanno rubato la vita, l’aveva già donata!”: questo senso “martiriale” dell’amore gratuito, comunque ci venga chiesto dalla vita concreta, illumina e sostiene il lungo itinerario per accogliere il Vangelo dell’amore ai nemici. L’anima radicale della sinodalità ecclesiale è, oggi come nella chiesa primeva, questa energia di agape, “che move il sole e l’altre stelle”. Ma – appunto – maturarla è un cammino. Insieme.
Ma – come intuiva santa Maria Maddalena de’ Pazzi – siamo tutti lontani: “L’Amore non è amato”.
“O Dio, rendimi degno di comprendere il mistero del tuo amore, raffigurato nella tua economia riguardo al mondo sensibile, nelle opere della tua creazione e nel mistero dell’uccisione dell’Amato” (Isacco il siro).