Il brano – esclusivo di Matteo – si dimostra la chiave di volta della teologia dispiegata in tutto il suo vangelo, ultima tappa del lungo discorso escatologico il cui perno è il rapporto con il fratello e la sorella, le loro necessità nel registro del dramma.
Gesù si dice Figlio dell’uomo, in quella veste che si addice a chi dovrà giudicare perché regni la giustizia voluta dall’Altissimo.
Egli è Re proprio perché ricompone tutto il divenire delle persone e della natura in un’armonia che deriva dalla giustizia, ridonando a tutti coloro che sono stati colpiti ingiustamente e che, in un qualsiasi modo, sono stati vittime di ingiustizie e prevaricazioni, quella dignità che spetta a chi si riconosce creato dall’Altissimo, cioè persona.
In realtà, tutta la vita di annuncio di Gesù è stata improntata da questa decisione, ora, al culmine della storia, deve solo tirare le fila: ripropone il profeta Ezechiele e la tradizione ebraica del Signore seduto sul trono con il Sefer, il rotolo della Torah, e agisce in quanto Figlio dell’uomo.
Il giudizio viene a toccare la singola persona ma anche tutta l’umanità intesa in senso globale, destra e sinistra, le pecore per la vita, i capri per il macello sacrificale, però non deve essere letto come una punizione che piombi quale mannaia ma semplicemente come l’esito di tutto l’impegno o disimpegno di un’esistenza. Tutte le genti, chiunque, non solo Israele o le comunità cristiane, anche coloro che mai Lo hanno conosciuto.
Benedetti del Padre sono coloro che si sono spesi a favore dei fratelli e delle loro necessità. Viene osservata la prassi, la concretezza del servizio e dell’uscita dalla concentrazione assoluta su di sé. Il Re giudice non sottopone ad un esame teologico e non si attarda su considerazioni morali o moraleggianti, Egli considera il servizio, i fatti: chi guarda e serve il fratello, guarda e serve il Signore.
Il povero se è ‘sacramento’ di Gesù, è anche “sacramento del peccato del mondo” (G. Moioli) perché rivela la terribile ingiustizia che i potenti esercitano sui bisognosi.
È una responsabilità cui non ci si può sottrarre, la coscienza dovrebbe premere, spronare invece, troppo spesso, è messa a tacere, allora il male del mondo e di ogni singolo oppressore grava sui poveri.
Maledetti non da Dio ma dalla loro stessa condotta egocentrica – l’indifferenza è micidiale, è assassina -, al supplizio eterno – punizione dal verbo mutilare, ovvero gli automutilati. Nel fuoco che elimina definitivamente, quindi il satana viene sconfitto totalmente.
Perché l’ultima e definitiva domanda che ci sarà rivolta sarà senza mezzi termini e possibilità di scampo: hai servito tuo fratello? Hai servito tua sorella?
In nostro dono libero, senza tornaconti, in spreco radicale di sé ma con un dato inatteso: la nascita e la crescita del legame con l’altro. Ognuno, per dono di Dio, ha qualche cosa da offrire, da porgere, non cose ma se stesso, senza ricaduta però sulla propria autorealizzazione, regalando la propria libertà che non diventa prigioniera ma del tutto libera.
Nel più piccolo si ritrova il più grande, il Figlio dell’Altissimo, che però vuole essere il Servo di tutti verso coloro che abbiamo emarginato: i carcerati, gli affamati, gli assetati, gli esclusi, i senza volto, i senza peso nelle nostre decisioni. I resi invisibili.
Guardarli e servirli con gli stessi occhi e le stesse mani di Gesù: quando servo il povero forse salvo lui, ma certamente salvo me stesso.