Memoria e gratitudine sono realtà profondamente radicate nella fede ebraica dei padri, fare memoria e rendere grazie rappresentano elementi caratteristici della religione giudaica e trovano nel mistero pasquale il loro compimento ultimo e definitivo. La riflessione di questa XXVIII Domenica del tempo ordinario ci mostra chiaramente come nessuno può essere grato a un altro se non ha mai fatto esperienza della sua benevolenza.
La liturgia di oggi si sofferma sulle figure di due lebbrosi, entrambi stranieri, Naaman il Siro, “guarito” da Elia e il lebbroso samaritano “salvato” da Gesù. Il ricordo, la memoria, sono necessari per poter essere grati.
Un messaggio apparentemente semplice da comprendere, tuttavia il Vangelo di oggi indica questo atteggiamento del cuore raro e poco scontato.
Dei dieci lebbrosi beneficati solo uno, un samaritano, uno straniero, come lo chiama Gesù, torna indietro per ringraziare. Questo significa che la gratitudine, il rendere grazie, sono il vero termometro con cui misurare la fede di un uomo. Contrariamente a quanto indicato dal comune sentire la fede si misura con la capacità di fare un’esperienza di profonda guarigione interiore, guarigione che nasce dall’incontro con Cristo. Nella seconda lettura Paolo chiede a Timoteo di “ricordarsi di Gesù Cristo” e aggiunge “come io annuncio nel mio vangelo, per il quale soffro”, si indica qui non solo la necessità di fare memoria di Gesù Cristo, ma soprattutto di corrispondere a lui anche con la sofferenza offerta, ovvero con la partecipazione amorosa e riconoscente alla sua passione. Il Vangelo di Luca pone inoltre l’accento su questa domanda di Gesù, che sembra non avere risposta; Gli altri nove dove sono? Di questi nove personaggi viene detto che sono stati “guariti” mentre del samaritano viene detto che è stato “salvato”, “la tua fede ti ha salvato”. Tutti e dieci si sono rivolti a Gesù esclamando “Gesù, maestro abbi pietà di noi”, nove “guariti” uno “salvato”.
Il messaggio evangelico è chiaro, non basta credere in qualcuno o in qualcosa e non è nemmeno sufficiente la professione di fede senza che questa sia accompagnata dalla gratitudine che nasce e cresce con il fare memoria dell’incontro che ci ha salvato.
La professione della fede nel Cristo può guarire certamente dall’idolatria e predisporre l’uomo alla conoscenza della verità, tuttavia l’uomo può essere “salvato” solo se celebra con la sua stessa vita la memoria dell’evento che l’ha salvato, rendendo per questo grazie. Per noi cristiani, fare memoria e rendere grazie, divengono unica realtà ogni volta che celebriamo l’Eucaristia, dal greco εὐχαριστία, appunto “rendimento di grazie”. L’Eucaristia diventa il modello paradigmatico dell’incontro tra noi lebbrosi e il Maestro a cui chiediamo misericordia e dal quale riceviamo la salvezza che procede da un cuore grato e riconoscente.