Pr 31,10-13.19-20.30-31; 1Ts 5,1-6; Mt 25,14-30
I talenti non sono le doti o i beni materiali da moltiplicare. Sono, invece, l’olio del brano precedente e l’amore verso i poveri del brano seguente. Il vero talento è l’amore che il Padre ha per noi e che deve duplicarsi nell’amore nostro verso i fratelli. La parabola ha tre tempi: il passato in cui abbiamo ricevuto il dono, il presente in cui dobbiamo moltiplicarlo e il futuro in cui ci sarà chiesto cosa ne abbiamo fatto. I doni si commerciano capitalizzandoli in amore per i fratelli. Il profitto a cui ci spinge Gesù è di natura spirituale ed è fatto di dono e di misericordia.
A guadagnarci, alla fine non è il padrone, ma il servo che già ne ha dieci. Il patrimonio che cresce, operando nei talenti, non è quello del Signore, ma il nostro; chi ci rimette è colui che sotterra il dono. La ricompensa è entrare nella gioia nuziale del Signore.
Tutti hanno ricevuto dei doni, anche il servo cattivo e le vergini stolte. Alla fedeltà e alla prudenza, i servi devono aggiungere la bontà per entrare nella gratuità del dono e vincere la paura per una falsa immagine di Dio. Il servo che ha ricevuto un solo talento scava, nasconde, in contrasto visibile con l’atteggiamento degli altri due che investono, mettono in circolo, rischiano di mettere in comunione. E questo è un atto d’amore.
La fede è una responsabilità, non una cauzione o un lasciapassare. Visibile in modo luminoso quando si dice che il servo, ricevuti i cinque talenti, "subito andò e operò in essi". È la vita responsabile del credente. Tutto rimane dono e diventa il nostro dovere.
Angelo Sceppacerca