Sap 2,12.17-20; Giac 3,16-4,3; Mc 9,30-37
Gesù sta andando a Gerusalemme per vivere la sua Pasqua di morte e resurrezione. È la seconda volta che lo ha annunciato. E loro, i discepoli, cosa fanno? Discutono su chi sia il più grande tra di loro. La Pasqua di Gesù è l’ultimo avvenimento nel tempo ma il primo nel valore per la vita. I discepoli non comprendono il rovesciamento dei valori operato da Gesù su quello che conta e quello che non serve; temono perfino di porre domande. Mentre i suoi sognano altre strade di onore e grandezza, Gesù cammina verso la massima umiliazione, quella della croce.
Gesù torna a insegnare ponendo dinanzi ai discepoli il segno di un bambino. Lo abbraccia perché è segno suo; lui è il segno del Padre che lo ha mandato e il bambino è segno della tenerezza di Dio e dell’obbedienza filiale del suo unigenito. Obbediente fino a essere crocifisso tra i malfattori. È un bambino piccolo, ma è segno di Lui che viene da Dio; e le parole che pronuncia ("Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato") sono cariche di grande rivelazione. Il bambino posto in mezzo e abbracciato è allo stesso tempo immagine del Cristo, immagine del cristiano e immagine di Dio. Accogliere il bambino nel nome del Cristo è ricevere il mistero stesso di Dio.
Gesù dice di essere il figlio dell’uomo. Il Vangelo di oggi è un insegnamento forte sull’umanità del Figlio di Dio. Per questo la sua morte e la sua resurrezione, sono cose concrete, vere. E poi c’è quel colloquio in casa quando il Signore si ritrova coi suoi, in intimità. Li chiama e non li rimprovera, ma spiega loro il modo nuovo di essere primi: accogliere un piccolo è accogliere Lui e il Padre. I discepoli sanno già che seguire Gesù significa prendere la propria croce, ma hanno paura. Il loro non capire è un non voler capire. Quel bambino abbracciato e messo in mezzo è il segno del mistero di Dio che si consegna nelle mani dell’uomo.
Angelo Sceppacerca