Dt 4,1-2.6-8; Giac 1,17-18.21-22.27; Mc 7,1-8.14-15.21-23
Le parole di Dio messe di faccia alle tradizioni degli antichi e i comandi di Dio contrapposti ai nostri precetti. Non c’è paragone, misura. Sarebbe come mettere insieme l’essere e l’assenza, la luce e le tenebre, il buono e il cattivo. E cattivi sono i propositi di male: brutture e rapine, assassini e tradimenti, avidità e disonestà, tradimenti e corruzione, rancore e accuse false, presunzione e imbecillità. Tutti prodotti del cuore degli uomini. Isaia profeta l’aveva gridata l’ipocrisia di un popolo che onora con le labbra ma che è lontano col cuore; crede di rendere culto e invece tradisce il comando di Dio!
Più avanti Gesù fa un esempio – clamoroso! – di questa ipocrisia quando un figlio, invece di onorare il padre e la madre, dichiara "korban", offerta a Dio, quello che dovrebbe dare loro per sostenerli. È la contaminazione dei comandamenti di Dio. Casomai è vero il contrario: è onorando il padre e la madre che si onora Dio.
Il punto del problema (e della sua soluzione), è "il cuore degli uomini". Solo Gesù raggiunge l’apice del dramma umano perché tocca il cuore e "toglie il peccato del mondo" che è la separazione tra Dio e noi, sue creature. Dio percorre tutta la grande distanza che ci separa e l’ultimo passo è Gesù che arriva fino al cuore dell’uomo facendolo nuovo. Fuori da questo cuore non c’è nulla d’impuro e in questo rendere puri tutti gli alimenti, il cristianesimo dona all’umanità un vero tesoro.
Come gli alimenti non portano inciso un segno etico che li renda buoni o cattivi, così anche le labbra, scollegate dal cuore, non bastano a rendere culto. Al di là dei cibi e dei riti tradizionali, il cuore dell’uomo occupa il centro dell’insegnamento del Signore e torna a essere la norma radicale della fede e della pietà ebraiche, ma più in generale di tutte le tradizioni spirituali e sapienziali.
Quello di oggi è un Vangelo senza aggiunte e senza sconti. È il Vangelo di Francesco d’Assisi, la cui novità è stata quella di avere fatto riscoprire ai cristiani del suo tempo e di quelli successivi il gusto del Vangelo, vissuto nudo e crudo, sine glossa, cioè in modo genuino, in pienezza e sincerità, convinto che solo a chi si sforza di viverlo nella sua integrità scopre la perfetta letizia di cui esso è sorgente. Per il Poverello l’unica "regola" era e doveva restare il Vangelo, nudo e crudo, sine glossa: ovvero senza quelle note a margine che usavano i dotti per "interpretare" e addomesticare le leggi.
Angelo Sceppacerca