At 4,8-12; 1Gv 3,1-2; Gv 10,11-18
La relazione tra Gesù pastore e noi, sue pecore, ha l’esemplare nel rapporto tra il Figlio e il Padre. Una relazione d’amore e di conoscenza profonda, più forte di qualsiasi cosa, anche la peggiore, portata contro la comunione. È una conoscenza che porta Gesù a dare la vita non perché le pecore lo meritino, ma proprio perché sono scappate dal recinto e si son fatte nemiche del pastore, fino a metterlo a morte! C’è un amore più grande di questo?
Tutto quello che il Signore vive col popolo d’Israele si dilata nella relazione e nella salvezza che, nel Figlio, Dio stabilisce con l’umanità, comprensiva di tutte le pecore, comprese quelle fuori dal recinto del cortile del tempio di Gerusalemme. L’amore salverà non perché le pecore sono buone, ma perché lo è il pastore che dà la vita per loro. Il vero pastore ama intensamente le sue pecore. Questo amore lo fa "buono", anzi "bello" e forte da vincere il lupo che è il Serpente antico, il nemico di Dio e dell’uomo.
Io sono il buon Pastore, il pastore definitivo promesso da Dio alla discendenza di Davide, il Messia che regnerà deponendo l’anima a favore delle pecore, dando la vita per loro perché Gesù ama l’umanità. Chi è pagato, invece, non si espone al pericolo per salvare il gregge che non è suo. I capi d’Israele si sono comportati da mercenari, come ladri e briganti, come lupi che sbranano; per questo Dio strapperà loro di bocca le sue pecore. Anche quelle che non sono del recinto ebraico: tutta l’umanità diventerà un solo gregge sotto l’unico vero pastore Gesù.
Tenera e drammatica, l’immagine del Buon Pastore è in assoluto la più antica dell’arte paleocristiana. Dopo il tabù ebraico contro le immagini, sulle pareti delle catacombe romane – prima di Priscilla e poi di san Callisto – comparve la rappresentazione di un Cristo dai delicati tratti apollinei, con la pecorella smarrita, sulle spalle.
"Un pastore. Uomo della solitudine e del silenzio; un uomo che veglia giorno e notte a difesa da mercenari e ladri, per amore dei suoi agnelli. (…) Sempre assorto in calmi e infiniti pensieri; forse ultimo esemplare di una civiltà lontanissima: una civiltà fatta di contemplazione, di senso dell’eterno; e quindi di una civiltà che garantiva tutta una realtà di vita: la tenuta degli affetti, la consistenza delle promesse, il peso delle parole, la resistenza degli amori… Dio non poteva non paragonarsi a un pastore. Noi abbiamo un pastore che non solo si accontenta di aspettare che tornino da sole o che altri le riconducano all’ovile, ma… si avventura alla ricerca del suo bene perduto… Così è la vita del pastore innamorato, che già sente nelle sue carni gli artigli delle fiere e gli pare di udire l’urlo del lupo. Riusciremo mai noi a penetrare dentro il cuore di un simile Dio? Riusciremo a capire come Dio ama?". (Turoldo)
Angelo Sceppacerca