Domenica 11 ottobre

Sap 7,7-11; Eb 4,12-13; Mc 10,17-30

Per raggiungere la vita bisogna rinunciare alla vita (intesa come piacere e utile immediato, come autoaffermazione attraverso il successo, il potere sugli altri, il possesso delle cose). Gesù fa alcuni esempi. Il matrimonio non dev’essere vissuto come coincidenza precaria di due egoismi, ma come superamento dell’egoismo individuale nel dono reciproco incondizionato, cosa che esclude ogni divorzio, e come superamento dell’egoismo di coppia nell’apertura ai figli e alla società (cfr Mc 10,1-16). Le ricchezze servono per aiutare gli altri (cfr Mc 10,17-27). L’autorità deve essere esercitata non come un dominio, ma come un servizio (cfr Mc 10,41-45).

Un proverbio ebraico dice che nemmeno in sogno si può vedere un elefante passare attraverso la cruna di un ago. Gesù si diverte a riformulare il proverbio. I discepoli restano comunque colpiti, perché ritengono che le ricchezze siano un aiuto, non un impedimento. Dinanzi al loro smarrimento, Gesù punta lo sguardo al fondo del cuore e dice: certo, da solo, nessun uomo è libero veramente e può auto-salvarsi! La libertà e la salvezza nascono proprio dall’incontro e dalla sequela di Gesù. Pietro e i discepoli già stanno vivendo questa esperienza, perciò esclamano: chissà come sarà grande la nostra felicità! Gesù lo conferma. Ma lo testimoniano anche le mille storie di chi, proprio avendo lasciato tutto per il Regno dei cieli, già su questa terra sperimenta la misura del centuplo: in fratelli, sorelle, case. Soprattutto in gioia e in libertà, due prodotti che scarseggiano molto nel grande mercato del benessere.
Anche il giovane ricco pensava che la vita eterna consistesse nel fare qualcosa in più, invece Gesù gli dice che l’avrebbe ottenuta lasciando tutto. Fatto sta che per tutti, primi e secondi, la salvezza è dono gratuito del Padre. Non si può meritarlo o pretenderlo: è grazia.

Cosa c’è di più dei comandamenti di Dio? La libertà e la povertà. La libertà da tutto e da tutti; la povertà – che è l’altro nome della libertà – nel senso del dono radicale e definitivo di se stessi. Può sembrare una cosa impossibile – una contraddizione in termini (comandamenti e libertà) – perfino da afferrare e comprendere, ma non “nei pressi di Dio”. E proprio “presso Dio” bisogna andare e verificare se ci sono persone che hanno lasciato tutto e tutto – moltiplicato per cento volte – hanno ricevuto in cambio dall’amore di Dio. Ne conoscete di persone così? Ce ne sono molte. Sono i discepoli del Signore, innumerevoli e in ogni epoca. Liberi e gioiosi, come Francesco di Assisi, Camillo de Lellis, Teresa di Calcutta, tanto per nominarne alcuni, capostipiti, a loro volta, di schiere di altri discepoli, uomini e donne felici di lasciare il poco che avevano e di trovare – presso Dio – il molto che neppure osavano sperare e immaginare.

All’inizio era stato il giovane ricco ad attirare l’attenzione di Gesù perché lo aveva riconosciuto come “Maestro buono” e gli si era inginocchiato dinanzi, con un gesto di grande sincerità. A sua volta, è Gesù che lo colpisce dritto al cuore perché “fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse…”. L’amore di Gesù non riduce il prezzo, non fa sconti, anzi accompagna richieste ed esigenze alte e radicali. Sarà per questo che il Vangelo di oggi è accostato alla lettura del libro della Sapienza. Per capire la parola di Gesù, che gli sgorga dal cuore, ci vuole proprio la sapienza del cuore. Solo allora si può lasciare tutto e tutti ed essere felici davvero, senza attendersi nulla in cambio: per amore. Per un amore innanzitutto ricevuto. Il punto di nascita di ogni “lasciare” qualcosa che abbiamo in mano è l’abbraccio tenerissimo che uno riceve e poi ricambia. Non è mai il rovescio.

Angelo Sceppacerca