Domenica 19 luglio

Ger 23,1-6; Ef 2,13-18; Mc 6,30-34

Prima del grande segno della moltiplicazione dei pani il Vangelo di Marco inserisce un brano di passaggio, col ritorno degli apostoli dalla missione: Gesù si ritira in disparte con loro, interrompendo per un momento l’intensa attività in mezzo alla gente, per verificare a tu per tu le parole annunciate e le azioni compiute nel suo nome. Il luogo solitario del ritiro è uguale al deserto dell’esodo; non è solo un posto, ma una condizione indispensabile per ritrovare la pace del cuore nella comunione col Signore e da questa riavere il senso e i criteri dell’agire e dell’andare.

Gli apostoli sono stanchi, non tanto per la fatica, quanto per la delusione, l’esperienza di girare a vuoto, come stanca è la folla che vaga come pecore senza pastore.
Anche i filosofi più grandi possono confessare la loro stanchezza, il loro vagare senza direzione. Nietzsche ammette suo malgrado che il nichilismo coerente è invivibile: “Rovesciai tutte le pietre di confine, inseguii i desideri più pericolosi. Nulla è vero, tutto è permesso: così parlai a me stesso; vivere come io ne ho voglia o non vivere affatto. Ma, ahimè, ho io ancora una meta? Un porto verso cui corra la mia vela? Un buon vento? Ah, solo chi sa verso dove naviga sa anche quale vento è buono, favorevole alla navigazione. Se non c’è una meta, se si va a finire nel nulla, non c’è nemmeno una direzione del cammino. Che cosa mi è restato? Un cuore stanco, una volontà instabile, ali per svolazzare qua e là, la schiena spezzata” (Così parlò Zaratustra).

Gli apostoli, che erano così stanchi, “si riunirono attorno a Gesù”. Gli riferiscono innanzitutto quello che hanno fatto e poi quello che hanno insegnato, perché sanno che l’insegnamento è solo di Gesù, l’unico maestro. Portati da Gesù nel luogo appartato, gli apostoli lo sentono parlare al loro cuore e anche la loro mente si apre al grande segno del “pane disceso dal cielo” che è Gesù stesso.
Gli apostoli, e dietro a loro tutti i discepoli e tutti i cristiani, sono missionari, annunciatori della buona notizia di Dio che si fa prossimo nella persona di Gesù. Dentro la missione, però, c’è la contemplazione, la preghiera. Lontano dalla folla che non lascia respirare, l’apostolato ha bisogno della preghiera che è la sua anima. È necessario il deserto, il silenzio delle cose e degli uomini, il luogo spirituale dove si ha solo l’essenziale e dove, privati di tutto quello che normalmente si ritiene importante, ci si ritrova a tu per tu con Dio e mentre tacciono le parole degli uomini e delle cose, finalmente si può riascoltare la voce di Dio.

A che serve la preghiera, la contemplazione? Non è forse una fuga dal mondo e dalle responsabilità? Come si può, ad esempio, portare la pace con atteggiamento inerme e rassegnato? Qui non si tratta di parlare o di tacere, di fare o di non fare; si tratta di decidere con chi parlare, in nome di chi agire. Madre Teresa di Calcutta non ebbe dubbi ed esitazioni quando fece questa scelta per sé e per le sue suore: “Per essere in grado di realizzare la pace parleremo molto a Dio e con Dio, e meno con gli uomini e agli uomini”.
E lo aveva capito anche il “piccolo principe” quando, al mercante di pillole che calmavano la sete (ne bastava una alla settimana per togliere il bisogno di bere) e che, in questo modo, permettevano di risparmiare ben 53 minuti alla settimana, chiese: “E cosa ne fai di questi 53 minuti?”. “Se ne fa quel che si vuole…”. “Io”, disse il “piccolo principe”, “se avessi 53 minuti da spendere camminerei adagio adagio verso una fontana…”.

Angelo Sceppacerca