Domenica 28 giugno

Sap 1,13-15; 2,23-24 ; 2Cor 8,7.9.13-15; Mc 5,21-43

Diciamo subito quel è il contenuto di questi due miracoli inseriti uno nell’altro. È Gesù che s’impone, con la sua calma e sicurezza in mezzo alla folla, dinanzi alla donna che di nascosto gli si avvicina o davanti all’angoscia di Giaìro per la morte della figlia. Per tutti ha attenzione, premura, sia che dialoghi, sia che imponga il silenzio, sia che operi cose che lasciano stupiti. Gesù, dice l’evangelista Marco, suscita fede e fiducia; la sua potenza di compiere fatti e miracoli si esprime nel gesto della donna che tocca il lembo del mantello e nel segno di Gesù che prende per mano la fanciulla morta.

Ora qualche dettaglio. La scena è consueta: Gesù è lungo il mare e c’è sempre molta folla che lo segue in ogni suo spostamento. Giaìro gli si getta ai piedi, con dolore e fiducia, per supplicarlo di “toccare” sua figlia che sta morendo, per salvarla e guarirla. Anche una donna, da lunghi anni malata e inutilmente curata, si attacca a Gesù accostandosi di nascosto, alle spalle, per il timore di doverlo guardare in volto. L’attimo in cui Gesù la identifica è magnifico. Lei è impaurita e trema, si getta ai piedi di Gesù e gli confessa il gesto con cui aveva voluto rubare la grazia della guarigione. L’atteggiamento di Gesù mostra la gioia di essergli dinanzi, volto a volto, occhi negli occhi, bisognosi e in attesa di ogni cosa quelli della donna, misericordiosi e infinitamente accoglienti quelli del Signore. Gesù opera il miracolo della guarigione ma fa molto di più: si intrattiene con la donna, le parla faccia a faccia, occhi negli occhi. L’incontro personale con Gesù è un miracolo – se possibile – ancora più grande.

Eusebio di Cesarea racconta di una statua in bronzo del Salvatore, voluta come segno di gratitudine proprio dalla donna emorroissa guarita da Gesù: “Su un alto masso davanti alla porta di casa, già abitazione dell’emorroissa, si erge una statua di bronzo di una donna che piega il ginocchio, con le mani protese nell’atteggiamento di persona che implora; dirimpetto ad essa, si erge un’altra immagine della medesima materia che riproduce un uomo in piedi, avvolto in un manto, che tende la mano alla donna… Tale statua raffigura Gesù. È rimasta fino ai nostri giorni; l’abbiamo veduta con i nostri occhi” (Storia Ecclesiastica VII, 18).
La notizia della morte della piccola di Giaìro non cambia le cose. Bisogna continuare ad aver fede. Giaìro gli crede, non altrettanto i presenti che iniziano a deriderlo e dunque non possono seguirlo per vederlo all’opera.
Per Gesù c’è prossimità fra la morte e il sonno, perché sono entrambi premessa e segno di una vita nuova portata dalla sua parola di comando: talità kum: alzati! È l’aramaico del latte materno, è l’ ordine di risvegliarsi e risuscitare.

Nella reazione dei presenti prevale lo stupore che è molto di più dello sbalordimento psicologico (comprensibilissimo dinanzi a gesti strepitosi e straordinari); è intuizione di essere dinanzi ad una presenza di Dio. Ed è questo che introduce alla fede.
Il Vangelo di oggi parla, infatti, della fede. È la fede che guarisce e che salva, perché è la fede che vince la morte. Ma chi è “costui” a cui si può e si deve credere? È la domanda che percorre tutto il Vangelo di Marco. La risposta – completa – verrà solo alla fine, per bocca di un pagano, il centurione che ha comandato l’esecuzione del condannato e che, trovandosi di fronte a lui e avendolo visto spirare in quel modo, disse: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”.
Il Vangelo di oggi vuol portarci a toccare Gesù e ad essere da lui toccati nel solo modo possibile, con la fede che lo riconosce risorto e Signore che dà la vita.

Angelo Sceppacerca