At 4,8-12; 1Gv 3,1-2; Gv 10,11-18
Dopo la guarigione del cieco dalla nascita, che ha provocato la dura opposizione dei farisei, Gesù parla di se stesso come del “buon pastore”. Ai farisei ciechi, che pretendevano di essere le guide del popolo, Gesù mostra la loro cecità e propone se stesso come il vero pastore che conduce verso la libertà i suoi fratelli. Sullo sfondo del discorso di Gesù c’è un’immagine familiare in Palestina: a tutti era chiaro il rapporto particolare che c’è tra gregge e pastore, figura di quello tra re e popolo, simile a quello tra Dio e i suoi fedeli. È l’antica figura del re pastore, di Dio stesso come pastore. Anche Abramo e i patriarchi erano pastori; Mosè, Giosuè e Davide sono chiamati pastori del popolo, che loro guidano in nome di Dio. La vita del pastore si spiega con quella delle pecore e la vita delle pecore dipende da quella del pastore.
Per la maggior parte di noi, oggi, è desueta e poco gradita l’immagine dell’uomo-pecora, che segue un pastore, perché l’uomo si percepisce come essere libero. Eppure, al di là della nostra sensibilità in materia di immagini di noi stessi, gli spazi lasciati alla nostra libertà sono sempre più ridotti. I mezzi di comunicazione, tanto per citare alcune delle nuove “guide”, impongono veri e propri modelli culturali e comportamentali, limitando di fatto la libertà. I “modelli” sono i nuovi pastori, che tutti, come un gregge, desideriamo seguire e raggiungere, mentre ne restiamo eternamente sudditi inquieti e mai appagati.
Gesù propone un modello alternativo, decisamente. Ciò che dobbiamo imitare non sono i desideri degli altri con i conflitti che ne seguono ma quelli del Padre, che non è rivale di nessuno. Proprio Gesù, che è il Figlio che conosce l’amore del Padre, si propone come il vero pastore, il pastore-bello alla cui sequela diventiamo ciò che siamo: figli del Padre e fratelli fra di noi. Ai falsi pastori che diffondono la cultura dell’aggressione, della competizione, della rivalità e della violenza, Gesù oppone la sua persona di pastore che porta la cultura della fraternità e dell’amore. Solo così, finalmente, anche la nostra vita potrà essere libera e dunque bella.
Il buon pastore è conosciuto dalle pecore e dal Padre: “Conoscere” è “amare intensamente”. Questo amore lo fa “buono”, anzi “bello” ed è il segreto della sua forza; è quel “potere” e quel “comandamento” che egli ha ricevuto dal Padre, che gli permette di “porre” la sua vita per le pecore e per il Padre, come si depongono le offerte sull’altare. Una vita “deposta” per amore ha una fecondità senza limiti di tempo, di spazio, di cultura e religione; giunge fino ai confini della terra: “Ho altre pecore, che non sono di quest’ovile; anche queste devo condurre”.
Buon-pastore, dunque, nel senso di pastore-bello. Bello perché vero, autentico, buono. È questa la bellezza che salverà il mondo. La contrapposizione tra Gesù e i mercenari sta nella risposta a questa domanda: quanto ti importa delle pecore? Le pecore sono di chi dà la propria vita per esse. Gli altri, quelli che le pecore non le conoscono perché non le amano, sono i briganti, i mercenari. La questione, allora, non è su chi sia il vero pastore, ma chi è per noi Gesù Cristo. Anche stavolta si giunge alla questione cruciale, alla domanda sulla fede. Ancora una volta Gesù diviene motivo di discussione e divisione tra le persone: non esiste nella storia elemento di più alta provocazione. La polemica su Gesù Cristo accompagna ogni generazione umana, non solo cristiana, e occupa il pensiero, il rimescolamento e la speranza di ogni anima.
Angelo Sceppacerca