Ger 33,14-16; 1Ts 3,12-4,2; Lc 21,25-28.34-36
Il Vangelo di oggi porta una richiesta: guardate sul serio gli avvenimenti che vi circondano, molti di essi sono segni del nemico che vuole allontanarci da Cristo. Il caos esterno è la cornice del disordine interiore che è peggiore di quello perché è fatto dalle paure di un uomo stretto dal vuoto e posseduto dall’angoscia, senza possibilità di scampo dal precipitare nel nulla. Chi non conosce la paternità di Dio vive il tempo “senza un padre” perché non sa di venire da lui e di tornare a lui. L’uomo tramortito dalla paura è curvato sotto il peso dell’angoscia. Ha paura di vivere, forse più che di morire.
Dal Vangelo giungono parole di speranza per difenderci da questo nemico.
Risollevatevi. È la prima parola. Non rimanere schiacciato dalla paura, alzati pieno di speranza perché Cristo ti ha già liberato. È vicino a te.
Alzate il capo. E gli occhi al Signore. Non sentirti come un ergastolano.
Guardate il fico e le altre piante. Apri gli occhi dell’intelligenza. E del cuore.
State attenti a voi stessi, che il cuore non si appesantisca da ciò che toglie tempo ed energie all’essenziale.
Vegliate in ogni momento pregando, siate vigilanti nella preghiera perché ogni momento è gravido di salvezza.
I fatti che disorientano e spaventano, per noi cristiani sono il segno che l’ora della salvezza si avvicina. Anche dietro le tragedie e gli sconvolgimenti, c’è una venuta del Signore. La fede non risparmia dalle sciagure e dai dolori; ma, nonostante tutto, essa invita a perseverare nel cammino, a rimanere vigili e in preghiera in attesa della venuta del Signore. Non è della sua presenza che dobbiamo aver paura, come l’ebbe Adamo al rumore dei passi di Dio nel giardino, ma della sua assenza. È la vita che non porta da nessuna parte che spaventa fino alla morte; è la mancanza di speranza che uccide.
La liturgia dice al cristiano, con assoluta sicurezza, dove nasce e verso dove è diretto. L’inizio e la fine sono indissolubilmente uniti. All’inizio del sacramento del Battesimo c’è un dialogo fra il sacerdote e i genitori del neonato: “Cosa chiedete alla Chiesa per questo bambino?”. “La vita eterna”, è la risposta. Fin dall’inizio conosciamo il punto di approdo. La nostra vita non sarà, dunque, l’odissea di Ulisse ma l’esodo di Israele dalla schiavitù alla libertà del servizio in una terra promessa, perché il comandamento si riassume nell’amore disinteressato, nel servizio ai fratelli.
Nelle nostre mani, così fragili, è lasciata la stessa credibilità e visibilità di Dio. Se viviamo nella carità, ogni attimo è quello della presenza e della venuta del Signore: a sera, a mezzanotte, al canto del gallo, al mattino. In ogni istante è nascosto l’attimo dell’incontro. Vegliare, dunque, per cogliere il senso delle cose. Vegliare sul senso del tempo. Vegliare sui tempi della vita. Perché è l’Avvento, il tempo in cui Dio irrompe e viene.
“Anno dopo anno, il tempo scorre in silenzio; il ritorno di Cristo si avvicina sempre di più. Se potessimo almeno avvicinarci al cielo come egli si avvicina alla terra! … il cielo e la terra costituiscono un velo trasparente posto fra noi e Dio; verrà un giorno in cui Dio stesso strapperà questo velo e si mostrerà a noi”. Così scriveva il cardinale J.H. Newman in un’omelia del tempo di Avvento. Tempo di attesa, l’Avvento è tempo di gioia perché ogni venuta di Cristo è dono di grazia e di salvezza, ma è anche tempo d’impegno perché ci spinge a vivere il presente come tempo di responsabilità e di vigilanza. La “vigilanza” sta a dire la necessità l’urgenza! di un’attesa viva ed operosa.
Il modello dell’avvento e dell’attesa sono le donne, le madri. Loro sanno cosa vuol dire aspettare. L’uomo non è capace e non dura ad aspettare. Dio sì che sa attendere. Facendosi uomo, il suo tempo infinito si accorcia nel finito di una sosta. Dio aspetta “per farci misericordia”. L’avvento sta di fronte all’eternità di un Dio che accetta di trascorrere dalla nascita alla risurrezione. Passando per la morte.
Angelo Sceppacerca