Ez 33,1.7-9; Rm 13,8-10; Mt 18,15-20
Il Vangelo di questa domenica fa parte di una sezione chiamata anche “discorso ecclesiastico” perché contiene quegli insegnamenti e quei precetti che Gesù rivolge agli apostoli, cioè a coloro che dovranno guidare la Chiesa. E questo dice anche l’importanza del contenuto. Gesù, alle folle, parla in parabole; ai discepoli, poi, spiega in privato. È una piccola comunità apostolica, molto più che una scuola. Gesù e i dodici fanno vita comune perché proprio loro dovranno assimilare bene tutto il suo insegnamento e riproporlo lungo i secoli. È per questo che la Chiesa è fondata sul solido fondamento degli apostoli e l’essere “apostolica” è una delle sue note teologiche.
Ma veniamo al contenuto. La frase che precede il brano di oggi, dice: “Dio non vuole che neppure uno di questi piccoli si perda” e chi guida una comunità, sa che non deve escludere nessuno da essa senza prima aver tentato ogni mezzo per correggerlo dall’errore. Come gli apostoli sono le colonne fondanti della Chiesa, così lo è la correzione fraterna, perché pone la comunione alla base della comunità. Il voler salvare ad ogni costo il fratello, anche il più “piccolo”, è espressione genuina di quella carità che si ingegna in ogni tentativo capace di convertire il peccatore. Qui non si tratta solo di perdonare. Il perdono è una parte, necessaria, ma che riguarda uno solo. Qui si tratta di riportare l’altro alla condizione di fratello, a ristabilire la reciprocità della comunione.
I passi per ottenere questa conversione mostrano fino in fondo la delicatezza e il rispetto della persona: prima l’ammonimento a tu per tu, poi la mediazione di qualcun altro, infine la partecipazione di tutta l’assemblea. Esattamente il contrario del metodo adottato da chi, invece, porta il conflitto all’interno della Chiesa, anche se mascherato dall’intento di voler affermare la libertà di opinione. Questo produce scandalo e perdita, quella (la correzione fraterna) riconciliazione e guadagno dell’altro.
Dopo il detto di Gesù sulla correzione fraterna, vengono quelli sul potere della comunità di legare e sciogliere, sull’efficacia della preghiera fraterna e, infine, sulla promessa della presenza del Signore in mezzo ai suoi. I poteri dati a Pietro e, in Lui, alla Chiesa, sono gli stessi del Figlio. Come il Figlio, anche la Chiesa ha la grazia di poter cercare ciò che si perde, di trovarlo e di salvarlo. La forza di questo “potere” è tutta spirituale, perché nasce da fratelli che uniscono la voce (“si accorderanno”) per chiedere al Padre il suo stesso potere, di accogliere e non scandalizzare, di ricercare gli smarriti e di riguadagnare i perduti.
Infine, la promessa di Gesù di venire e di stare in mezzo a due o più riuniti nel suo nome. Basterebbe da sola a creare tutta una corrente di spiritualità e di santi. Come di fatto è stato. Anche i rabbini avevano un detto simile: “Se due si uniscono per applicarsi alla parola della legge, la Shekinà è nella loro adunanza”. La Shekinà, ossia la gloria di Dio! Come la nube che copriva l’arca dell’alleanza e che accompagnava l’esodo del popolo di Dio. La colonna di fuoco, il baluardo invincibile.
Se il peccato rompe la fraternità, il perdono ne ricostruisce subito la prima metà e provoca il completamento del processo perché muove il cuore del fratello a completare l’abbraccio di pace. Ora si è finalmente in “due o più” e il frutto è inaspettato quanto soprannaturale: la presenza del risorto fra noi. Anche oggi. Anche a casa nostra. E con lui in mezzo la nostra preghiera si fa infallibile.
Angelo Sceppacerca