Domenica 20 luglio

Sap 12,13.16-19; Rom 8,26-27; Mt 13,24-33

La zizzania è un’erba infestante e velenosa. All’inizio si confonde con la piantina di frumento. La Parola, seminata nel cuore dell’uomo – il vero e unico campo – ha sempre a che fare con un parassita tenacissimo: il male. E il male non è mai “fuori”, da solo: attecchisce nei cuori e nelle comunità. Il campo è il mondo, la comunità umana, ma anche le comunità cristiane che ne fanno parte. Anche tra i cristiani vi è grano e zizzania, vi sono i buoni e i tiepidi, i peccatori e gli indifferenti. Anzi, a volte le piante mutano: la zizzania diventa grano e il grano degrada a zizzania.

Le parabole di questo Vangelo spingono a pensare grandi cose di Dio! È un vero Signore che dona all’uomo la libertà e gliela lascia. Lascia crescere il bene con il male. Quando i servitori desiderano intervenire, il Signore lo impedisce perché il processo non è ancora compiuto. I pensieri e i tempi di Dio sono diversi dai nostri. C’è di più: non identifichiamo noi stessi sempre con il grano mentre gli altri sono sempre la zizzania? Eppure Dio ci accetta non perché siamo buoni, ma perché lui è buono. Se Dio lascia crescere anche le zizzanie, è perché, nel ricevere misericordia e perdono, possiamo conoscere Lui come grazia di salvezza.

Sembra strano, ma questa volta il significato che dà Gesù della parabola si comprende meglio a partire dalla parabola stessa. Solo Dio è capace di “tirar fuori cose nascoste fin dalla fondazione del mondo” da ciò che è sotto gli occhi di tutti: il campo, il grano, il seme così piccolo, il lievito.
Il piccolissimo granello di senape è il germe del Regno, ma è anche simbolo di Gesù, preso e gettato sotto terra, il più piccolo dei semi che germinerà nel grande albero della croce con i suoi infiniti frutti di salvezza. È lui il pugno di lievito, nascosto e impastato nella carne del mondo per farne tutto un pane vivo. Le parabole sono suggestive perché possono contenere e suggerire spiegazioni diverse. Tutte possibili e tutte valide, a condizione di conservarne la chiave di lettura cristologica, direbbero i teologi: fra tutti i “segni” del Regno di Dio, primo fra tutti resta l’umanità crocifissa e risorta del Figlio dell’uomo. Cantava Agostino, il vescovo di Ippona: “È scesa quaggiù la vita nostra, la vera vita; si è caricata della nostra morte per ucciderla con la sovrabbondanza della sua vita”.

Il Vangelo di oggi è tutto uno straordinario passaggio: all’inimicizia di chi ha seminato la zizzania si sostituisce un atteggiamento di paziente convivenza, quindi la serena certezza che il piccolo seme sarà la pianta più grande e quindi la più adatta a dare un vero riparo a tutti i popoli simboleggiati dagli uccelli del cielo e, infine, la fermentazione di tutta la storia attraverso quel pugno di lievito nascosto nella farina e capace di far fermentare tutta la massa. Sarebbe sbagliato concludere da tutto questo che il male e il mistero del male non vengono giudicati. Il giudizio divino si compie reagendo al male con il bene della Croce del Signore e col suo sacrificio d’amore. È l’Amore che distrugge il Peccato e salva il peccatore.

Giorgio La Pira vedeva il Cristo Risorto “come lievito trasformatore e come modello elevante e attrattivo” di tutte le cose. Così affermava in una lettera scritta nel giorno di Pasqua a un amico. Altrove precisava che il Risorto “opera contemporaneamente su tre fronti: la conversione delle singole anime, la dilatazione della Chiesa, l’influenza trasformatrice sulle strutture sociali e sulla civiltà umana”. Egli era fermamente persuaso che “i valori dell’uomo sono valori di Cristo; le pene e le gioie dell’uomo sono pene e gioie di Cristo”. Tale visione teologica infondeva in lui una incrollabile fiducia, sebbene fosse consapevole della drammaticità della storia. La stessa fiducia, tutt’altro che ingenua, che Gesù infonde nei suoi discepoli con le parabole del minuscolo seme di senapa che cresce fino a diventare un albero e del pugno di lievito che fermenta tutta la pasta.

Angelo Sceppacerca