Domenica 31 agosto

Ger 20,7-9; Rom 12,1-2; Mt 16,21-27

In questo Vangelo Gesù fa il primo annuncio della sua morte e resurrezione. Per la prima volta parla della croce, che è scandalo per tutti, anche per Pietro che vorrebbe persuaderlo a fare altrimenti. In certo senso Pietro si mette davanti a Gesù. Ma Gesù deve andare a Gerusalemme perché lì, con le sue ferite, guarirà le nostre. Per questo Gesù rimprovera Pietro e gli ordina di rimettersi al suo posto, ossia dietro a lui. Questo è il vero senso del rimprovero: “Lungi da me!”. Non è un allontanarlo, ma un rimettere ordine nelle precedenze. Prima viene Gesù, il Santo, che è amore. Poi noi che dobbiamo seguirlo sulla stessa strada.

La croce è scandalo per tutti perché l’amore è passione. Solo quando si scopre che il carpentiere di Nazareth è il Cristo, il Figlio di Dio, si può giungere alla comprensione che proprio il mistero del Messia che soffre svela l’enigma inspiegabile e ripugnante della sofferenza umana. Scriveva il cardinale Lustiger, arcivescovo di Parigi: “Quando Cristo ci propone di portare la nostra croce, lo ascoltiamo come si ascolta una parola che colpisce e ferisce, una parola che invita quasi alla più vile rassegnazione, alla resa dell’uomo nella sua lotta contro la sofferenza. Come se, di fronte a questo enigma della condizione umana, non esistesse nell’uomo che il grido dell’animale che soffre e che chiede di non soffrire più. Ora vi è nell’uomo un mistero: quello della sua libertà, incatenata al male o aperta a Dio”.

Se Gesù ci chiede di portare la nostra croce è perché lui per primo l’ha portata. Cristo offre la sua vita per darci la Vita. Entra nella nostra morte per liberarcene, non come un uomo che si rassegna alla fatalità ma come colui che, Figlio di Dio fatto uomo, rovescia la fatalità. Il sacrificio della croce è precisamente la negazione di ogni fatalità della condizione umana e l’affermazione suprema dell’onnipotenza liberatrice di Dio. Nella croce si crocifigge il destino implacabile dell’uomo e risorge la sua libertà nella misura in cui questa viene unita alla condizione di Gesù.
Il Signore vuole che noi sappiamo cogliere quale nuovo volto assumano la morte e la vita grazie alla sua persona e all’opera tra noi e in noi del Figlio di Dio. È lo stesso Pietro – e i suoi successori, Papi e vescovi – ad accompagnare le generazioni cristiane in questa suprema fatica sapienziale e morale.

Quello che il Signore annuncia di Sé, è il volto, il significato e lo scopo di ogni esistenza umana e il segreto cosmico che la stessa creazione porta dentro di sé. Al centro di tutto si pone il quesito e l’enigma del senso della vita e della morte, il mistero del male e la sua sconfitta ad opera dell’Amore. Siamo veramente alle sorgenti della nuova creazione. La morte come principio della vita. La vita come offerta d’amore della vita stessa. La morte non è più ultima parola dell’esistenza, ma la penultima. L’ultima è la risurrezione del Figlio di Dio sulla quale si aggrappa, come a sostegno certo, anche la nostra.
Solo il Vangelo di Matteo usa l’espressione “la troverà” (quando Gesù dice: “Chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà”). In realtà la vera unica via per realizzare il nostro progetto esistenziale è proprio quel “perdersi per amore” piantato sulla cima del colle Calvario. Il sepolcro da cui risorgere non è lontano, né nel tempo, né nello spazio: è lì accanto e la notte termina allo spuntare del terzo giorno.

Angelo Sceppacerca