Zaccaria 9,9-10; Romani 8,9.11-13; Matteo 11,25-30
Il Pantocrator “Gesù Cristo il Salvatore”, dipinto a Costantinopoli durante la cosiddetta “Rinascenza Bizantina” sotto i Paleologhi (sec. XIII) e conservato nel monastero serbo di Chilandari, ha molti tratti realistici e corrispondenti a quelli della Sindone di Torino: capelli bipartiti e lunghi, volto allungato e grave, naso diritto e sottile, baffi discendenti, barba corta. Nello stesso tempo appare trasfigurato: emerge dal fondo oro, dalla luce infinita di Dio; slanciato verso l’alto, sebbene a mezzo busto; vestito di blu e di rosso, colori che indicano la divinità e la regalità; sostanziato di luce senza ombre; con una posizione quasi frontale, con la bocca piccola, fine e chiusa, con i grandi occhi aperti e lo sguardo intenso, in segno di concentrazione interiore e insieme di vivissima comunicazione.
È l’immagine di Gesù, forte e mite, secondo il detto ascoltato nel Vangelo di oggi: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore”, guarda con benevolenza e benedice con la mano delicata, quasi carezzevole. L’immagine sembra senza materia e senza peso come un’apparizione che avanza verso chi la contempla, come pura energia immateriale, irradiazione dinamica della persona che attraverso di essa viene a me, si dona, mi guarda, qui e ora. Vengono in mente le parole di San Simeone Nuovo Teologo a proposito di un’icona analoga a questa: “Ognuno ha l’impressione di essere visto da lui, di godere della sua vicinanza, in modo che nessuno possa lamentarsi di essere trascurato”. Se è vero che la gloria è escatologica, proiettata oltre il tempo e lo spazio, è anche vero che questa gloria si fa presente e si comunica già adesso, nella precarietà della nostra condizione storica.
La conclusione del capitolo 11 di Matteo è una bellissima preghiera di lode, che il Signore Gesù innalza al Padre e che possiamo anche imparare facilmente a memoria per ripeterla spesso. Ci ricorda la rivelazione più grande, quella di un Dio che è Padre, con le sue conseguenze: tutti noi siamo fratelli, perfino i nemici.
L’invito di Gesù è premuroso e incoraggiante: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Imparate da me che sono mite e umile di cuore”. Accanto a Lui più facile sarà anche la preghiera per quanti sono nell’incredulità, nel dubbio, nell’indifferenza, nel materialismo pratico; per coloro che sono prigionieri dell’individualismo e dell’egoismo; per le famiglie divise e per le persone sole; per coloro che sono vittime delle ingiustizie sociali, che sono senza lavoro, senza casa; per coloro che soffrono a motivo della violenza, dei conflitti, del terrorismo, delle guerre; per la pace in Terra Santa tra ebrei e palestinesi; perché sia scongiurata la guerra in ogni angolo del mondo.
San Francesco ha imparato da Cristo in modo meraviglioso ad essere mite ed umile di cuore. Vale la pena leggere qualcosa del ritratto spirituale che ne fa il suo primo biografo, Tommaso da Celano. “Era bello, stupendo e glorioso, nella sua innocenza, nella semplicità della sua parola, nella purezza di cuore, nell’amore di Dio, nella carità fraterna, nella prontezza dell’obbedienza, nella cortesia, nel suo aspetto angelico. Di carattere mite, di indole calmo, affabile nel parlare, cauto nell’ammonire, fedelissimo nell’adempimento dei compiti affidatigli, accorto nel consigliare, efficace nell’operare, amabile in tutto. Tenace nei propositi, saldo nella virtù, perseverante nella grazia, sempre uguale a se stesso. Veloce nel perdonare, lento all’ira, prudente nelle decisioni e di grande semplicità. Severo con sé, indulgente con gli altri, discreto in tutto” (Vita prima 83).
Il vescovo Giacomo da Vitry, che lo incontrò in Egitto all’assedio di Damietta durante la V Crociata, così lo presenta: “Egli era ripieno di tale eccesso di amore e di fervore di spirito che, venuto nell’esercito cristiano, accampato davanti a Damiata, in terra d’Egitto, volle recarsi, intrepido e munito solo dello scudo della fede, nell’accampamento del Sultano d’Egitto. Quando gli fu portato davanti, osservando l’aspetto di quell’uomo di Dio, il sultano si fece mansueto, e per parecchi giorni l’ascoltò con molta attenzione, mentre predicava Cristo davanti a lui e ai suoi. Poi, preso dal timore che qualcuno dei suoi si lasciasse convertire dall’efficacia delle sue parole […] lo fece ricondurre, con onore e protezione, nel nostro campo; e mentre lo congedava gli raccomandò: Prega per me, perché Dio si degni mostrarmi quale legge e fede gli è più gradita” (Historia Occidentalis II,32). Francesco è “mite e umile di cuore”, ma nello stesso tempo coraggioso nel proporre il Vangelo.
Angelo Sceppacerca