Isaia 55,10-11; Romani 8,18-23; Matteo 13,1-23
Il mistero della vita di Gesù è lo stesso della sua parola in noi. Certo le cose non restano mai come prima. E non è una favola soporifera. Quando la parola di Dio incontra il terreno della storia, si accende una lotta. Il male sembra prevalere. E anche quando c’è il bene, questo è sempre mescolato al suo contrario. Eppure la parabola insegna e propone una lettura diversa, più profonda della storia: proprio nella sconfitta il bene trionfa. Come il seme che muore, ma che, in realtà, sta per divenire spiga e frutto succoso.
È vero, solo una parte della seminagione raggiungerà la terra bella e feconda il resto sarà preda degli uccelli, dell’aridità, della calura e del soffocamento dei rovi ma il frutto che ne viene supera ogni speranza. In Palestina un sacco di semi ne fruttificava 7/8, massimo 11/12. Oggi si può arrivare a 30. Gesù promette dal 30, al 60 al 100! Con lui è la speranza assoluta, la promessa di vita eterna, la salvezza dal male, il perdono del peccato. Se il seme è la parola, la terra buona è l’orecchio attento e il cuore disponibile. Per questo il vangelo chiude con l’ammonimento: chi ha orecchi, ascolti.
Questa parabola segue due capitoli del Vangelo di Matteo che potremmo definire di crisi. La vicenda del Battista, il giudizio su “questa generazione”, la condanna delle città che non hanno creduto alla predicazione di Gesù, la rivelazione ai “piccoli”, la “signoria” sul Sabato e sulle prescrizioni legali, i miracoli in giorno di Sabato e gli scontri con i farisei. Ora la parabola del seminatore sembra il racconto di una catastrofe, di un fallimento: gli uccelli mangiano il seme, le pietre gli impediscono di crescere, le spine lo soffocano. Ma la parabola spiega il mistero del Regno e della vita stessa di Gesù: è Lui il seme caduto a terra e morto.
Ora Gesù spiega, con un linguaggio umano e facilmente comprensibile, questo mistero. Il capitolo 13 di Matteo, con le sue otto parabole, mostra una lettura diversa della crisi e dell’apparente fallimento: proprio nella sconfitta il bene è vittorioso. Tutto ciò che avviene nel tempo della crisi e della contraddizione è percorso dall’avanzare del Regno che c’è anche se non è compiuto, perché siamo al tempo della semina e della pesca, ma verrà il giorno del banchetto. Se c’è la terra arida, c’è anche quella accogliente e fertile: il seno di Maria ha accolto il seme della Parola e gli ha dato corpo e radice. Il libro del Cantico la dice beata perché “Il tuo ventre è un mucchio di grano, circondato da gigli”.
I quattro tipi di terreno presentati nella parabola (la strada, il terreno sassoso, le spine, il terreno buono) non rappresentano quattro categorie di uomini quasi ci fossero uomini-sassi, uomini-rovi, uomini-fecondi ma quattro livelli di ascolto della Parola di Dio e di ricezione di essa che convivono in ciascuno di noi. Gli impedimenti sono vari: i soliti pensieri che ci distraggono, le pressioni esterne che impediscono alla Parola di crescere, le preoccupazioni e il desiderio di ricchezza che soffocano la Parola quando questa ha già attecchito. Ma nell’uomo c’è anche la terra bella. Quest’ultima acquista spazio quando vanghiamo i sentieri e togliamo i sassi e i rovi.
Quando Gesù spiega la parabola ai discepoli, usa più volte i verbi udire, vedere, intendere. Sono passati duemila anni da quel racconto e la parabola del seme ha ancora tutto il suo valore, perché al centro di essa non sta né il seminatore, né il terreno, ma il seme, la Parola di Dio. Nel corso dei secoli i seminatori e i terreni cambiano, la Parola resta.
Angelo Sceppacerca