Domenica 1 giugno

Deuteronomio 11,18.26-28; Romani 3,21-25.28; Matteo 7, 21-27

Il discorso della montagna si chiude paragonando gli uomini alle case che si costruiscono. Esternamente possono essere uguali; la differenza si nota nel momento decisivo della bufera e l’esito è dato dall’alternativa tra la distruzione totale e la salvezza. Dipende da cosa c’è sotto le case.
Fuori dalla similitudine, l’entrata nel Regno dei cieli, che è il premio dei salvati, è per coloro che ascoltano la parola del Signore e fanno la volontà di Dio, non la propria. Chi, invece, ascolta e non fa, è come colui che costruisce sulla sabbia e, alla prova, frana rovinosamente.
Chi sono quelli che ascoltano e non fanno? Sono anch’essi credenti perché si dice che hanno ascoltato la Parola. Non solo, ma hanno fatto di più: opere religiose, esorcismi e persino miracoli. L’evangelista Matteo ha dinanzi una comunità piena di carismi, ricca di fede ed entusiasta. Ma tutto questo non basta. Non basta la fede. Non bastano i miracoli. Tutto questo cesserà nell’ultimo istante, nella prova decisiva. Alla fine resterà solo l’amore e solo questo conta.

Fare la volontà di Dio, e non la nostra, è riconoscerlo Signore. Lui è il Kyrios e noi i servi. Matteo qui fa sintesi e dice che alla fine – nel giudizio – ognuno mieterà ciò che ha seminato e peserà, più di ogni altra cosa, il quotidiano amore e l’umile servizio ai fratelli nelle piccole cose.
Gli studiosi della Scrittura ci dicono che, probabilmente, Matteo aveva dinanzi una comunità di gnostici, ossia di coloro che si vantavano di possedere una conoscenza (gnosi) superiore di Dio e che per questo si ritenevano autosufficienti al punto di dar gloria a sé, non al Signore.
La vera saggezza, invece, mette insieme l’ascoltare – e il sapere – con il praticare, il fare. Così recita anche una massima giudaica: se il tuo sapere supera il tuo agire, sei come un albero con molte foglie e poca radice. Gesù è più radicale: sei come un albero a cui mancano le radici e il primo vento ti abbatterà in rovina.

Chi potrà mai salvarsi? Chi può dire di avere la roccia sotto i propri piedi? Su tutti, ci pensa Paolo (seconda lettura) a sgombrare il campo da ogni possibile equivoco: “Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Gesù Cristo”.
Il Vangelo non è minaccia, ma consolazione, incoraggiamento e promessa. Gesù non rimprovera la semplice incoerenza, della quale faremo penosa esperienza fino alla fine ma che al tempo stesso sarà il luogo dove esercitare quotidianamente la nostra umiltà, la fiducia in Dio e la conversione continua. Gesù condanna l’autosufficienza, mostrandone l’inconsistenza, la debolezza, il fallimento.

In poche e semplici parole: il Figlio di Dio, giudice finale, non riconoscerà quelli che non hanno vissuto come fratelli. Torna l’amore, decisivo per la salvezza e il perdono.
Fare la volontà del Padre. Fare le Parole ascoltate da Gesù. Il Vangelo di questa domenica ha una grande sottolineatura del fare, della prassi. Il verbo fare esprime due elementi strettamente connessi tra loro: l’umiltà e la concretezza. Chi davvero “fa” è umile perché conosce il limite del risultato, l’errore e la fatica di ricominciare.
Non si disprezza l’ascolto, tutt’altro. Tutta la rivelazione si fonda sull’ascolto, lo shemà Israél. Solo che è un ascolto, come dire, completo, sincero, fino in fondo. Un ascolto che porta all’obbedienza, ossia al fare.
Anche la prima parola della Regola scritta da san Benedetto da Norcia, il patriarca del monachesimo occidentale, è Ascolta – “Ausculta, o fili, praecepta magistri et inclina aurem cordis tui” (Ascolta, o figlio, gli insegnamenti del maestro e inclina l’orecchio del tuo cuore) – e tornano in mente alcuni monasteri benedettini, letteralmente costruiti sulla roccia.

Angelo Sceppacerca