Veglia Pasquale: Matteo 28,1-10
Non poteva essere altrimenti: il Vangelo di Pasqua contiene il cuore dell’annuncio cristiano. Il cristianesimo prende inizio da un “fatto” avvenuto presumibilmente nella notte tra l’8 e il 9 aprile dell’anno 30, e reso pubblico a partire dall’alba del “terzo giorno”, dopo cioè il venerdì che ha visto la morte di Gesù e dopo il grande sabato pasquale quando di tutta la vicenda del profeta di Galilea restava soltanto un sepolcro sigillato e muto.
Un fatto sorprendente e assolutamente inatteso: le testimonianze a nostra disposizione concordano nel rilevare che i discepoli di Cristo hanno faticato non poco ad accettarlo. Le due giornate precedenti avevano distrutto radicalmente le luci di verità e i palpiti di insolita speranza che erano stati suscitati nelle menti e nei cuori dal Nazareno. L’intera eccezionale esperienza, maturata negli anni di convivenza con lui, davanti alla sua tomba si era come azzerata.
Solo quando quel gruppo di uomini delusi e avviliti si arrende all’evidenza e accoglie il “fatto sorprendente e inatteso”, comincia l’avventura cristiana. Comincia dunque con l’annuncio di un avvenimento “incredibile”: Gesù di Nazaret, il crocifisso morto dissanguato sul Golgota, è risorto. Ecco il cuore del cristianesimo, ecco la prima formula di fede, consistita in una sola parola: eghèrthe, cioè: “è risorto”. Questo è, per così dire, il minuscolo “seme” di tutta la prodigiosa fioritura che avrebbe colmato di sé i secoli futuri.
Come il popolo ebreo esultò e danzò all’uscita dalla terra di schiavitù, così gioisce il nuovo popolo di Dio uscito, con Cristo, dalla tomba di morte. All’annuncio della resurrezione, infatti, fa subito eco la parola del Signore alle donne: “Rallegratevi!”. Chi crede, gioisce, perché la speranza prende il posto della disperazione, la vita sopravanza la morte, il bene che perdona è più forte del male.
È Pasqua! Gesù è risorto! Come possiamo trascinarci dietro, anno dopo anno, rancori mai finiti, mezzi perdoni mai digeriti? Abbiamo una buona notizia da annunciare al mondo: Cristo è vivo! Perché ci vergogniamo di dirlo? Dobbiamo portare questo annuncio che rende giustizia a tutti i poveri della terra e asciuga tutte le lacrime versate nel mondo. Anche il cielo è in festa all’alba di questo terzo giorno.
Nell’esperienza delle donne al sepolcro attratte irresistibilmente, tornano là dove è il loro tesoro perché lì è anche il loro cuore! è anche l’esperienza decisiva per la comprensione della morte di Gesù, per l’origine della Chiesa: la Risurrezione è il fondamento della nostra fede e della nostra speranza.
Mentre le donne corrono dai discepoli per annunziare il Vangelo di Pasqua, Gesù si fa loro incontro. Per ognuno di noi la resurrezione è la molla dell’annuncio e la fraternità è il luogo della presenza del Risorto. Vivere da risorti non significa estraniarsi dalla terra, ma ricondurre alla speranza tutto ciò che noi viviamo, il lavoro e il tempo, le relazioni e le persone. Il perdono, domandato e offerto, l’amore che vince il male con un bene più grande, il dono gratuito di noi stessi, la presenza solidale accanto ai giovani, alle famiglie, ai malati e ai soli. Sono tutti frutti di una vita risorta, che ha conosciuto come il sepolcro di Cristo “un terremoto grande”: la terra si scosse, come una partoriente. Ma chi fa Pasqua, in fondo, non nasce a nuova vita?
Padre David Maria Turoldo così cantava “Per il mattino di Pasqua”: “Andrò nel bosco questa notte e abbraccerò gli alberi e starò in ascolto dell’usignolo, quell’usignolo che canta sempre solo da mezzanotte all’alba. E poi andrò a lavarmi nel fiume e all’alba passerò sulle porte di tutti i miei fratelli e dirò a ogni casa: “pace!” e poi cospargerò la terra d’acqua benedetta in direzione dei quattro punti dell’universo, poi non lascerò mai morire la lampada dell’altare e ogni domenica mi vestirò di bianco”.
Messa del giorno: Giovanni 20,1-9
Il Vangelo di Pasqua è scritto dal discepolo che è corso più veloce di Pietro al sepolcro; è il discepolo “che Gesù amava” e che a sua volta amava Gesù. Entrato, “vide e credette”. Cosa vide se Gesù non c’era? Forse vide il sudario, la Sindone? È probabile. Certo è che credette. Prima ancora dei discepoli, però, al sepolcro c’erano andate le donne. Tre secondo l’evangelista Marco. Solo Maria di Magdala secondo Giovanni. Certo è che per prime andarono le donne. La Chiesa del mattino di Pasqua e “Chiesa” vuol dire la comunità di coloro che credono nel Figlio di Dio crocifisso e risorto è prima di tutto un piccolo gruppo di donne. Il “genio femminile” di cui parla il Papa nella “Mulieris dignitatem” probabilmente si riferisce anche a questo intuito sulla resurrezione, a questo precedere gli stessi apostoli nella speranza della vita che vince la morte.
A lei la poesia di Rainer Maria Rilke dedica alcuni versi struggenti: “…Quando venne in lacrime al sepolcro / per spalmarlo di balsami, Egli era / per lei risorto e per poterle dire, / più beato, il suo: Non mi toccare. / Lei capì solo poi nella sua grotta, / quando, fortificato dalla morte, / lui finalmente le vietò il conforto / di spalmarlo di unguenti e il presagio del contatto, / per educare in lei la donna amante / che sull’Amato ormai più non si china / perché, sospinta da bufere enormi, / sopravanza la voce dell’Amato”.
Ultime a lasciare il Golgota bagnato di sangue, le donne sono anche prime a ricevere e a trasmettere l’annuncio della sua resurrezione. Anche la missione evangelizzatrice della Chiesa, al suo albore, è tutta al femminile. Ma se c’è una precedenza ai piedi della croce e davanti al sepolcro vuoto, questa non è questione di genere, maschile o femminile: è questione di misericordia. Maria di Magdala è la donna perdonata e perciò risorta. Le sue lacrime, accanto al sepolcro, testimoniano un legame con chi, nel nome e nella vicenda, le aveva portato salvezza: Gesù.
Auguriamoci buona pasqua, certamente, e con cuore sincero. Ma pasqua significa pronunciare il nome di Gesù in cui solo c’è salvezza, misericordia, perdono e speranza. Non è invece accaduto, nella nostra vita e nelle vicende della nostra storia che altre cose ne hanno preso il posto?
Messa vespertina: Luca 24,13-35
Il Vangelo della sera di Pasqua ripresenta l’episodio di Emmaus e dei due discepoli che fuggono da Gerusalemme perché gli eventi di quei giorni, come quelli di oggi, sono troppo pesanti da resistervi. Cleopa e il suo compagno prendono la strada della campagna, vogliono andar lontano dagli eventi, ma per strada non parlano d’altro. Proprio sulla strada sono raggiunti da Gesù che, per tutto il tratto, li ascolta, risponde, li porta a ricordare, a credere, a tornare a sperare.
Passeranno alla storia come i discepoli di Emmaus. Uno è Cleopa, forse zio di Gesù: l’ha conosciuto secondo la carne, ma deve riconoscerlo nello Spirito. L’altro è anonimo, porta il nome di ogni lettore, può essere ciascuno di noi, chiamato a fare la stessa esperienza. Parlano di Gesù, conoscono tutti i fatti che lo hanno visto coinvolto, fino alla morte, ma manca loro il dato decisivo, la resurrezione. Anzi, nel loro dire “speravamo che”, si comprende come la croce sia stata da loro interpretata come la fine di ogni speranza. È proprio qui che il Risorto li ammaestra: la morte in croce non è un incidente, un fallimento, ma proprio alla luce della Pasqua è la chiave per comprendere tutta la Scrittura, tutti gli avvenimenti.
La sera scende e i discepoli lo invitano a restare con loro, a cena. E proprio mentre Lui è con loro, allo spezzare il pane, lo riconobbero! Ora, finalmente, non è più notte. La sposa riconosce lo sposo e può dire, come nel Cantico dei Cantici: “La sua sinistra è sotto il mio capo, e la sua destra mi abbraccia”.
Anche noi ci troviamo nella condizione dei lettori del Vangelo di Luca; siamo i cristiani della terza generazione e fondiamo la nostra fede sulla parola tramandataci dalla testimonianza dei testimoni oculari. Se anche noi, oggi (proprio oggi!), ci rechiamo al sepolcro, lo troviamo vuoto e, addirittura, luogo di violenza e di disperazione. Il Vivente non è lì, ma non ci ha lasciati, è per le strade del mondo dove ci incontra e si accompagna a noi. Come per i due di Emmaus, anche la nostra nostalgia e paura può trasformarsi in gioia dinanzi al gesto memoriale dell’amore di Dio: un pane spezzato e condiviso. Nella parola e nel pane eucaristico, che sono il viatico della Chiesa fino alla fine dei tempi, il Risorto si fa presente e visibile, riscalda i nostri cuori e ci convince anche dell’altro sacramento della sua presenza, il fratello, con il quale spezzare il pane della riconciliazione e della pace.
I discepoli di Emmaus tornarono di corsa a Gerusalemme. Anche noi dovremmo tornare alla città dolorosa per farne nuovamente il punto di partenza dell’annuncio di gioia: Gesù è risorto!
Angelo Sceppacerca