Domenica 16 novembre

Pr 31,10-13.19-20.30-31; 1Ts 5,1-6; Mt 25,14-30

Siamo alla fine dell’anno liturgico. Anche le parabole del Vangelo di queste domeniche parlano degli ultimi tempi e della venuta di Gesù per il giudizio universale. Quando tutto finisce, si fa un bilancio e si dà un giudizio: sulla nostra vita, sul tempo trascorso, sull’uso delle nostre capacità. Il premio è un banchetto eterno, è la comunione col Padre e con i fratelli. Chi non vi partecipa, come il terzo servo del Vangelo di oggi, è perché ha un’immagine sbagliata del Padre: lo ha confuso con un padrone dispotico.
I talenti di cui parla questo Vangelo non sono le doti o i beni materiali da moltiplicare. Sono, invece, l’olio delle vergini sagge (è il brano precedente) e l’amore verso i poveri (il brano seguente). Il vero talento è l’amore che il Padre ha per noi e che deve duplicarsi nell’amore nostro verso i fratelli. La parabola ha tre tempi: il passato in cui abbiamo ricevuto il dono, il presente in cui dobbiamo moltiplicarlo e il futuro in cui ci sarà chiesto cosa ne abbiamo fatto. I doni si trafficano investendoli in amore per i fratelli. Il profitto a cui ci spinge Gesù è di natura spirituale ed è fatto di dono e di misericordia.

I talenti sono doni gratuiti, grazie date gratis, cioè date “in vista degli altri”, secondo l’antico senso di questa espressione. Ecco perché i meriti di chi riceve questi talenti vengono dopo, in quanto dipendono dall’uso che se ne fa. Faceva notare Basilio di Cesarea: “Chiunque avrà tenuto per sé qualsiasi grazia di Dio, senza trarne profitto per gli altri verrà condannato per avere sotterrato il suo talento”. Ogni dono, dunque, è dato e ricevuto per amare il prossimo.
Si ha l’impressione oggi, che tutti muoiano di fame, al Nord come al Sud, all’Ovest come all’Est. Si muore di fame quando manca il pane, ma di più quando manca la fame. Se non è troppo forzato il senso di questo Vangelo, la “fame” è il desiderio insopprimibile che ci spinge sempre oltre i nostri limiti, i nostri traguardi di corto respiro. Scriveva Gregorio di Nissa: “L’anima trova sempre in ciò che ha realizzato un nuovo slancio per volare più in alto. In realtà solo l’attività spirituale ha questa proprietà di nutrire la sua forza spendendola e di non perdere, ma di aumentare con l’esercizio il suo vigore”. Far fruttificare i propri talenti significa anche liberare l’inquietudine e la sete d’infinito che ci abitano, che abitano ogni uomo, compreso il non credente e l’ateo. Non possiamo seppellire i talenti. Non dobbiamo seppellire – sotto infiniti strati di sonniferi – il bisogno di crescita che ci vuole nella statura di figli di Dio. Per questo alla preghiera “dacci oggi il nostro pane quotidiano”, possiamo anche aggiungere: “Dacci anche oggi la nostra fame quotidiana. Di Te, Signore”.

Per evitare il rischio di pensare questo Vangelo esclusivamente in chiave individuale, come una cosa tra me solo e Dio, basta ricordare cosa scriveva – ad esempio – Giorgio La Pira, il sindaco di Firenze di cui è in corso la causa di beatificazione: “Possedete dei talenti (economici, finanziari, politici, culturali, religiosi)? La finalità del loro impiego è evidente: moltiplicarli a favore dei vostri fratelli che sono con voi uniti nella dolce realtà della comunione dei santi! Comunione interna e comunione esteriore: è questo il duplice solidale aspetto del cristianesimo”. E ancora: “Quando Cristo mi giudicherà, io so di certo che Egli mi farà questa domanda unica: come hai moltiplicato, a favore dei tuoi fratelli, i talenti privati e pubblici che ti ho affidato? Cosa hai fatto per sradicare dalla società, della quale e nella quale ti ho posto come regolatore e dispensatore del bene comune, la miseria dei tuoi fratelli e, quindi, la disoccupazione che ne è la causa fondamentale?”. L’etica, dunque, deve ispirare la politica e la politica, a sua volta, deve governare l’economia, finalizzando il danaro alla produzione di mezzi e servizi a vantaggio delle persone, specialmente dei più poveri. Anche in ambito internazionale.

Angelo Sceppacerca