Domenica 27 gennaio

Is 8, 23b-9, 3; Sal 26; 1Cor 1, 10-13.17; Mt 4, 12-23

Gesù ha appena saputo dell’arresto di Giovanni, suo cugino e, meglio ancora, “il più grande dei nati da donna”. Giovanni verrà ucciso. Anche per lui si ripeterà la sorte del profeta in patria. Ancora una volta Giovanni precederà Gesù, questa volta nel martirio: stessi nemici, stesso destino. Il Vangelo, però, è scritto dopo la resurrezione di Gesù, e la resurrezione è anche il destino di Giovanni e di tutti i discepoli che seguono il Signore sulla via della croce. Uscito di scena Giovanni, inizia il ministero pubblico di Gesù, proprio dalla Galilea, terra di tutte le genti e ponte fra Israele e il resto del mondo.

Il Vangelo di questa domenica è tutto in un’indicazione: “Il regno dei cieli è qui”, in un comando: “Convertitevi”, in un invito: “Seguitemi”. Le tre parti, naturalmente, sono legate tra loro. Innanzitutto la presenza del Regno del Signore in mezzo a noi. Il Regno c’è perché Satana è vinto. Non c’è posto per entrambi, perché uno solo è il Kyrios, il Signore. Da qui l’appello alla conversione, alla scelta di Dio e alla rinuncia del male perché si compia la profezia di Isaia e sul popolo “immerso nelle tenebre” e su coloro che “dimoravano in terra e ombra di morte” brilli una grande luce. La persona di Gesù è vista come il sorgere del sole, come l’aurora del giorno nuovo. Lui è la luce che vince le tenebre e la morte; in Lui la nostra notte si apre al giorno di Dio.

Gesù, fin dall’inizio, non fa prediche morali, né offre spiegazioni filosofiche, ma invita alla conversione, al cambiamento di mente e di cuore, di occhi e di vita. Volgersi alla vita, alla luce, è l’unica condizione per entrare nel giorno che è già arrivato e nel quale viviamo da figli e da fratelli. Chi si “converte”, chi cambia la direzione dei propri passi, va dietro a Gesù. La fede cristiana è tutta qui, non innanzitutto una dottrina o una pratica, ma una relazione personale con Gesù, una sequela in risposta ad una chiamata. Per questo il Cristianesimo, fin dalle origini, fu chiamato cammino, via.

Dinanzi all’enormità del compito dei discepoli – la molta messe e tutti i pesci dell’oceano – e nonostante il loro numero – pochi – Gesù consegna la propria missione e li invia in tutto il mondo. Ciò che Gesù ha detto e fatto, gli apostoli continueranno a dire e a fare. L’identità e la vocazione del discepolo sono congiunte: si realizzano nella missione di estendere la fraternità universale. Se Gesù è il primo apostolo, la Chiesa tutta è apostolica.

“Pescati” dall’amore di Dio nell’abisso della paura e dello smarrimento, diventiamo a nostra volta pescatori-di-uomini, come Pietro e Andrea, come Giacomo e Giovanni. Il racconto di queste chiamate è emblematico di ogni vocazione: inizia da Dio che ci viene incontro e termina con noi che andiamo dietro a lui. Al centro dei due movimenti c’è l’incontro, l’esperienza dell’amore di Dio che ci raggiunge nella nostra vita quotidiana, ordinaria, e la trasforma in una sorta di “nuova creazione” perché la sua parola – chiamandoci – torna a crearci, a tirarci fuori dal nulla.

Non importa quello che si deve lasciare. Il Regno di Dio porta con sé, sempre, la promessa e la misura del centuplo. Cento volte in case, campi, madri, fratelli. Oggi il Vangelo riporta per ben quattro volte la parola fratello (“due fratelli”, “Andrea fratello di Simone”, “altri due fratelli”, “Giovanni fratello di Giacomo”) per ricordarci che la chiamata è alla fraternità universale. Perché siamo figli di Dio, siamo anche fratelli fra noi. Ognuno fratello di tutti. In tempi notturni, ascoltandoci nel profondo, avvertiamo l’eco della domanda di Isaia (21,11): “Sentinella, quanto resta della notte?”. E la sentinella rispose: “Viene il mattino… convertitevi, venite!”. La notte finisce quando vedi un uomo e lo riconosci fratello.

Angelo Sceppacerca