Sapienza 9,13-18; Filemone 1,9-10.12-17; Luca 14,25-33 Non può essere mio discepolo. Frase lineare e nel contempo ferma nella sua decisione: essere discepoli di se stessi porta all’egoismo ed egocentrismo, divenire discepoli del Cristo fa nascere alla libertà e alla vera sequela. Ci si fa poveri non perché bravi, ma in quanto resi ricchi dall’essere di Dio, per sempre. In questa domenica ventitreesima del tempo ordinario la liturgia della Parola insiste sullo stile e le condizioni per farsi nel quotidiano discepoli del Cristo. Perché Gesù insiste per tre volte: non può essere mio discepolo? Se vuole trovare deve lasciare; se vuole possedere deve donare. La vita cristiana, stringendo all’osso, ci viene descritta all’inizio del versetto ventisei: “Se uno viene a me”. Andare dal Cristo è un andare con lui e sui suoi passi che egli traccia dinnanzi a noi. Ma è bene precisare una cosa. Il seguire il Signore non è una operazione mentale e frutto di ragionamento. Nella mentalità occidentale è sempre più in uso un cristianesimo rivestito di ragionamenti e discorsi concettuali; al momento di fare scelte concrete e mettersi in reale cammino pare che le gambe si ingessino e gli occhi non sappiano più dove guardare! Questo, per esempio, è tipico nel mondo giovanile che, chiamato a dare degli stacchi e tagli con realtà sino a quel momento considerate necessarie, fatica a porsi sulla strada della ferialità. A tal motivo Gesù indica il padre, la madre, la moglie, i figli, le sorelle e, persino, la propria vita come persone e relazioni che vanno odiate, ovvero, ripensate nel loro giusto rapporto e valore. Il quarto comandamento della Bibbia, onora il padre e la madre, di certo non è in controtendenza con quanto detto da Gesù. Ma egli vuole dire un qualcosa in più: se anche un genitore o una moglie o la propria vita divengono soggetti di possesso si approda ben presto all’idolatria. Odiare, pertanto, indica quell’atteggiamento autentico che porta la persona a ritrovare la sana relazione e autentico rapporto. L’essere discepoli di Gesù non può giocarsi in una storia di compromessi per cercar di accontentare o non scontentare la famiglia e le persone attorno. Seguire Cristo esige quel giusto e doveroso ricalibrare il livello di amore. L’amore vero donato aiuta la persona a volare e fare scelte di libertà. L’amore di possesso fa nascere il rimorso e il senso di colpa costringendo la persona a giochi sul trapezio delle relazioni con il costante rischio di cadere per terra senza la rete di protezione. “Sedersi per calcolare la spesa”, dunque, è quello stile che si chiama discernimento e capacità di vedere con gli occhi della fede in Dio. Tante persone credono che per poter seguire Cristo bisogna dire no a ciò che si ha di più caro, come se l’amore di Cristo sia totalitario. L’amore di Dio, invece, è totalizzante, nel senso che una volta che il proprio cuore lo si è aperto a quello di Dio la reciproca trasfusione di donazione ha preso avvio. Ai propri genitori si continuerà, ovviamente, a dare amore, rispetto e servizio specie quando sono malati e anziani. Seguire Cristo non è dividersi tra due amori, ma nell’uno si ama e si serve l’altro. Come si riesce a compiere tale passo? “Se uno viene a me”: non è solo quell’andare verso ma uno stile di compiere determinati passi e scelte. È l’essere con Cristo che fa la differenza, una differenza che non divide, ma distingue, non separa ma aiuta a riconoscere. E come tutti i percorsi che si compiono nella vita non si è mai soli a viverli, ma passo a passo con altri, cercatori anch’essi di Dio. Giacomo Ruggeri