Domenica 8 luglio

Isaia 66,10-14; Galati 6,14-18; Luca 10,1-12.17-20 (forma breve: 10,1-9) La grande fiducia di Dio: quel porci dinnanzi a lui nel procedere della storia. È un gesto fortemente espressivo quello compiuto da Gesù nella chiamata dei settantadue discepoli. L’evangelista Luca colloca questo testo del capitolo dieci subito dopo il rifiuto di tre persone che avevano espresso desiderio di seguire Gesù. Ma ognuno di loro aveva messo le mani avanti con bel altre priorità rispetto alla sequela del Maestro. Il brano di Vangelo è un invito a spogliarsi di una sovrastruttura se si vuole seguire le orme di Gesù. Egli sa bene quale scenario attende i suoi discepoli e proprio perché ne è consapevole dona loro quelle indicazioni che risulteranno utili al momento opportuno. Non sono solo delle indicazioni su come comportarsi, cosa dire o non fare, ma sono quei necessari pilastri per impostare uno stile di vita evangelico. Il Vangelo – è bene ribadirlo – non è per gli eroi ma per ogni uomo e donna che vivono sulla terra. Nella vita, ciò che fa la differenza, è lo stile. Tutto ciò che si dice, si opera e si mette in movimento nasce dallo stile di fondo che anima e muove la persona. Se il Vangelo non entra a far parte, anzi, se non ne diviene l’anima della persona, il suo agire avrà altri frutti e farà altre scelte. Scegliendo di affidare la sua parola in quel “due a due” Gesù ci dice che il cristianesimo non è solitudine. La vita della comunità cristiana nel nostro Paese deve essere una vita “due a due”. Troppo spesso persone intelligenti e dotate di occhio profetico si muovono troppo in solitaria generando uno stile da leaders invece che di popolo ed il campo ecclesiale non è escluso. È vero che l’anima carismatica ha il grande dono e privilegio di intuire i passi da compiere e le scelte da porre in atto; ma se egli non educa il suo popolo alla missione e condivisione si vanno a creare troppi steccati. Ecco perché Gesù non va da solo e non vuole esercitare la sua missione in solitaria. Ma quali sono, perciò, questi pilastri che vanno a edificare la casa comune della Chiesa? La prima indicazione è nel versante del non portare, ovvero, del togliere e del lasciare. Non si può andare a parlare di povertà con le mani piene di diamanti, ne tanto meno di fame avendo la pancia ben sazia. In quell’imperativo “andate” va letto un fermo “cambiate” mentalità e ottica. La conversione più grande e profonda si gioca nelle piccole cose quotidiane più che nelle intenzioni e massimi sistemi. La missione che il Signore affida è prima di tutto missione da accogliere personalmente. L’agnello indicato da Gesù quale modalità della missione non è il simbolo della purezza o bontà, ma della croce e della testimonianza. È Gesù stesso che si fa carne in noi per renderci simili a lui ed essere inviati di persona. La differenza non è di poco conto. Si pensi, a tal proposito, a quante iniziative pastorali vissute in questa ottica. La seconda indicazione è nell’immagine della casa, simbolo della Chiesa. Si viene inviati non per porre zizzania e divisione ma per tessere una rete di comunione e condivisione. Una rete da gettare quotidianamente nel mare della ferialità specie quando essa è tutt’altro che pescosa. La vita cristiana non è l’annuncio delle proprie idee ma della pace donata e generata da Cristo. Questa pace è la password per aprire anche le serrature più arrugginite. E non va sprecata e tanto meno vanificata, al punto che Gesù precisa “altrimenti tornerà a voi”. La missione del Cristo, inoltre, è un qualcosa di concreto e pratico: “Mangiate e bevete di quello che hanno”, vedendo in questo linguaggio una ferialità che è condivisione di vita senza sconti di sorta. Se credere non è facile, condividere è più difficile. Ma non impossibile in quanto è la via maestra perché la fede si radichi e cresca. Nell’essere inviati di Gesù si mangia “quello che è dinnanzi”: il fratello non lo si sceglie, viene donato e posto dinnanzi. Alla tavola della relazione evangelica non ci alza mai a stomaco vuoto. Giacomo Ruggeri