Deuteronomio 30,10-14; Colossesi 1,15-20; Luca 10,25-37 La legge e la misericordia. Il tempio e la strada. La verità e l’amore. Sono piedi di un medesimo corpo, occhi dello stesso volto. Il noto brano evangelico del samaritano narrato unicamente dall’evangelista Luca pone al centro dell’odierna domenica il volto autentico della carità, dell’amore intriso di Vangelo. Un testo, quello lucano, forse letto e meditato a volte troppo velocemente deducendone delle interpretazioni un po’ approssimative o sommarie. Dietro e dentro ogni riga dell’evangelista, come d’altronde di tutta la Scrittura, vi è celato un messaggio personale e nel contempo comunitario. Una parola che aiuta a riprendere il cammino che si sta compiendo ed un’altra che dischiude a nuovi orizzonti. Vediamo assieme questi due passaggi. La vita eterna. È oggetto, ancora oggi, nella predicazione ordinaria, nella catechesi, nelle celebrazioni delle esequie e occasioni di incontri personali? La domanda è tutt’altro che retorica; vuole invece mettere al centro un problema presente nella prassi pastorale: come dire oggi la vita eterna. La domanda che viene posta a Gesù la si potrebbe rileggere nella formula seguente: cosa devo fare per essere felice. Se la vita eterna è il vivere eternamente con Dio non può che essere una vita felice, beata. La domanda di felicità che emerge dalla società moderna è sempre più crescente e mediante molteplici vie. Ma la felicità che si chiede è quella dell’ora e adesso hic et nunc perché la si vuole consumare velocemente secondo la logica infausta del tutto e subito, dell’immediato. Non c’è un investimento nella felicità eterna, ma si guarda a poco oltre il naso. Sguardi corti producono paure sul domani; sguardi profetici generano fiducia nella Provvidenza. E cosa risponde Gesù? Mette avanti la Legge, la tradizione, ciò che è certo e ha segnato il cammino di generazioni di credenti. È una indicazione anche per l’oggi: là dove c’è spesso la tendenza a porre avanti e a far valere il proprio parere personale, Gesù, citando l’alleanza tra Dio e il popolo, indica il punto fermo della storia di Dio con la sua gente. Saper guardare all’agito di Dio nel tempo aiuta l’uomo ad agire sull’oggi. In quello scendere da Gerusalemme a Gerico vi è simboleggiata l’allontanamento dell’uomo da Dio, dal tempio. È un voler fare di testa propria, di rompere gli schemi e dare inizio a percorsi personali e individuali. Dio lascia fare e permette che si scenda, si incappi nei briganti e si venga lasciati mezzi morti. Bella forma di masochismo, verrebbe da dire! Affatto. Dio non si compiace del male gratuito che viene fatto all’uomo ma nel contempo permette che egli prenda coscienza dei propri limiti e possibilità. Anche per l’uomo contemporaneo scendere da Gerusalemme a Gerico significa lasciarlo camminare per la via della propria cecità, presunzione, fame di protagonismo. Ma quando ci si allontana da Dio automaticamente ci si stacca dai fratelli. Si perde la strada e l’orientamento divenendo facile preda del male, del peccato, brigante che arruola sempre soldati a sé. Il peccato bastona, il male toglie la vita lasciano l’uomo mezzo morto perché la morte lenta è più atroce di quella immediata. Ma l’olio dell’incontro e il vino della condivisione non mancano ad arrivare. La vita cristiana è un costante riconoscere su quale strada si sta camminando. La Chiesa è quella locanda dove si viene accolti e dalla quale si riparte ristorati. È vero: spesso si arriva ad essa con percosse ricevute, forse, anche in nome di essa; ma a tal proposito non dimentichiamo che ben due persone passano oltre ciò che è visibile e interpellante. Quel passare oltre del sacerdote e levita sono il segno che la vita ecclesiale non si gioca solamente dentro le mura della chiesa con la liturgia o l’esercizio della carità verso i bisognosi, ma chiede di essere tradotta in scelte di vita che diventino cultura per l’uomo moderno. Il cristiano carica su di sé, porta, paga in prima persona, ama, si prende a cuore il suo simile. Qui sta la differenza. Se essa è capita e accolta non si passa più oltre. Giacomo Ruggeri