Atti 14,21-27; Apocalisse 21,1-5; Giovanni 13,31-33.34-35 L’amore dal volto femminile che genera purezza. Nella prima domenica del mese di maggio, tradizionalmente dedicato dalla Chiesa alla figura di Maria, la liturgia della Parola del Vangelo di Giovanni indica l’amore come senso, fine primo e ultimo della vita. Su di una figura nascosta come Maria si è sempre scritto e parlato tanto grazie alla ricchezza della spiritualità che ha tracciato. Un percorso segnato dall’amore per il suo figlio Gesù che dalla casa di Betlemme salirà sino al Calvario per ridiscendere al Cenacolo. Ma cosa vuol dire, nella società contemporanea, pregare e rivolgersi a Maria? Senza la madre, Maria, non si avrebbe mai avuto il figlio, Gesù di Nazaret. Nel rivolgersi a Maria, dunque, il credente è chiamato a prendere coscienza del volto materno della fede. Il rischio di rendere troppo razionale e intellettuale il rapporto della fede in Dio può limitare l’uomo nel relegarlo alla sola sfera di analisi e di studio. Grazie a Maria la fede acquista e ritrova la semplicità della casa, della famiglia, della vita feriale e intrisa di maternità, sponsalità. Ogni ebreo era ben consapevole che amare Dio era la prima cosa in assoluto da fare e rispettare. Il rapporto verticale uomo-Dio non doveva essere infranto da nulla e trasgredito da nessuno. L’irruenza benefica del Cristo nella storia della salvezza ri-orienta il fine dell’uomo: amare Dio mediante gli uomini e le donne del proprio tempo. La novità non sta nell’amare, ma nel come e chi amare. Ma Gesù è chiaro: “Amatevi gli uni gli altri”. Quante relazioni sono vissute in modo sterile perché è mal compreso e vissuto questo invito. A volte ci si serve dell’altro per amare se stessi in forma egocentrica e narcisistica. Si confonde l’amore gratuito con quello interessato. Il crinale che determina e caratterizza la differenza è data da quel “come io vi ho amato”. Gesù non è un guru dell’amore che elargisce modalità su come amare e con quali criteri. Gesù ama perché ama. Quando all’amore si vuole dare e trovare tanti perché, si infrange, con le proprie mani, la bellezza del dono. “Come io”: più che da prendere ad esempio la sua persona Gesù indica in ogni uomo il prolungarsi della sua vita. Ecco perché sottolinea quel “anche voi”, una chiara indicazione di come può morire l’amore se si coniuga solo con aggettivi possessivi mio, tuo, suo. Gesù, invece, preferisce nostro, vostro, loro. Sono queste le coordinate che permettono ad ogni uomo di fondare la sua capacità di amare nel nome di Cristo. “Da questo vi riconosceranno”: non da altro, da questo, da quell’asse orizzontale persona-persona che, in forma speculare, riflette verso Dio, il Padre. Maria di Nazaret non insegna a suo figlio come si ama. Lo ama. Non si abbia il timore, pertanto, di chiedersi che tipo di amore si dona e condivide nella catechesi dei fanciulli, degli adolescenti e dei giovani. Una catechesi che traspira troppo di insegnamento, più che di condivisione, genera un’idea di amore in pillole, a nozioni, di precetti, possibilità e divieti. Su questo la pastorale ordinaria è chiamata costantemente a riverificarsi. Da Maria, infine, si acquisisca quella novità che Giovanni evidenzia nel Vangelo: il comandamento nuovo è la partecipazione attiva alla vita altrui sapendo, sin dall’inizio, che si partorisce il dono d’amore con dolore. La novità è nel non saper rifiutare o fuggire la necessaria e benefica sofferenza che squarcia la corazza della paura e dell’individualismo. La corona del Rosario, in questa nuova ottica, aiuta a uscire da se stessi aprendosi alla perseveranza della fraternità che va tessuta, accolta, rammendata, amata con lo spirito di madre e di sposa. Giacomo Ruggeri