Atti 5,12-16; Apocalisse 1,9-11.12-13.17-19; Giovanni 20,19-31 È la cosa più pregata e cercata: la pace. Ma se le porte sono chiuse con la chiave della paura difficilmente essa potrà regnare e dare i suoi frutti nel cuore degli uomini. A partire da questa mentalità molte porte sono ancora chiuse, ben sigillate, ma desiderose di vedere e far entrare la luce. Il Risorto, il Cristo, si fa luce e speranza nuova superando le paure, le chiusure e i nascondigli che l’uomo ha e si crea. La forza della Pasqua è dirompente, ma lo fa con delicatezza; infrange, ma per aprire; rovescia, ma per dare una nuova prospettiva. In questa seconda domenica di Pasqua l’evangelista Giovanni, con il noto testo dell’incontro di Gesù con il discepolo Tommaso, dice una cosa fondamentale: credere è amare. Il credere non risiede solamente nella sfera della ragione ma invade e pervade cuore e sentimenti. Il non credere di Tommaso verso i discepoli si rivela come una mancanza di amore verso il suo Signore. È vero che in ciascuno di noi vivono il credente e il non credente, come abitano assieme l’amore e il peccato. In tale prospettiva pensiamo ad una persona, un gruppo, un monastero, una comunità parrocchiale dopo l’evento della Pasqua. Il Vangelo di Giovanni dice, sin dall’inizio, che chiusura e paura facevano da padrone tra i discepoli senza il loro Signore. Quando manca la fede nel Signore Gesù è naturale che le relazioni vengano avvinghiate dalle corde del narcisismo, individualismo, supremazia. Cosa peggiore e controproducente quando tutto ciò avviene in ambito ecclesiale, quando si diviene contrasto a quel “Pace a voi” che vuole entrare. Ecco perché la Pasqua è necessaria come l’acqua per il terreno, come il latte per il bambino appena nato. Non si può fare a meno della Pasqua perché essa rappresenta il crocevia per ogni uomo. La Pasqua è questo stanare gli uomini chiusi nella loro paura (i discepoli) e pieni della loro convinzione (Tommaso). Il peccato di Tommaso non sta nel non credere ai suoi amici e fratelli discepoli, ma nel presumere che la sua sola autosufficienza e supponenza può essere sufficiente per dire di essere credente. Gli occhi dei discepoli che affermano: “Abbiamo visto il Signore” sono occhi che vedono in un modo nuovo perché rinnovata è la vita di Gesù di Nazareth, il Cristo. Ma gli occhi di Tommaso sono ancora coperti dalla cataratta dell’individualismo. Tommaso è cieco a se stesso: la peggiore delle cecità. Ma Dio è genesi infinita e creatore permanente. In quegli “otto giorni dopo”, tempo abbondante per la ri-creazione nuova che attende Tommaso è come se il Signore permettesse a Tommaso stesso di prepararsi a questa operazione agli occhi del cuore e mente. Gesù entra nella casa, si fa strada piano piano nuovamente nella vita di Tommaso, non ancora abitata completamente dalla fede. Gesù non spezza i lucchetti di Tommaso senza chiedergli il permesso perché vuole che sia lui stesso, Tommaso, a compiere tale azione. L’incontro di Gesù con Tommaso non è l’incontro con un uomo che non crede, ma che non ama. È tipico dell’amore allentare ogni freno verso se stessi (rigore che esige) e mutarlo in libertà quale capacità di amare. Gesù ama Tommaso ed è per questo che vuole stanare dal suo discepolo il covo della diffidenza, più che mai attuale. Visitato nel profondo da Gesù, Tommaso si scioglie in un’intima professione di fede: “Mio Signore, mio Dio”. È tornato a vedere, a camminare con le gambe proprie e degli altri, lasciandosi prendere per mano. Da atteggiamenti come questi la storia ha forgiato uomini e donne di santità. Imitiamo Tommaso, allora, nel lasciarsi incontrare e guarire da Gesù. Giacomo Ruggeri