Atti 13,14.43-52; Apocalisse 7,9.14-17; Giovanni 10,27-30
Quando la mano si apre è la morte ad arrendersi alla vita, il male al bene, le tenebre alla luce. Ma quando essa la mano si chiude in se stessa nasce il rapimento, lo spaesamento, la disillusione. Nella quarta domenica di Pasqua, che vede l’icona del Buon Pastore, o meglio detto del Pastore Bello (kalos), il capitolo dieci del Vangelo di Giovanni dichiara sin dall’inizio la differenza tra colui che nutre e colui che riempie la pancia con l’illusione della sazietà. Non caso, dunque, è in questa domenica che si pone in maggior evidenza non che in altri periodi dell’anno sia minoritaria l’attenzione il tema della vocazione. Pastore e pecore, ascoltare e seguire, dare la vita e perderla. Non sono binomi ma volti di un’unica medaglia. Sul tema della vocazione tanto si è scritto, si scrive e si continuerà a farlo. Ma non è questo il punto. C’è una “produzione letteraria e, per così dire, editoriale” che non verrà mai meno: è lo scrivere di Dio con la vita di ogni persona. Nemmeno Dio sa che cosa farà l’uomo della sua vita sino a quando non è egli stesso a venire allo scoperto, alla luce. La vocazione, dunque, è quel quotidiano e umile gesto che aiuta la fontana a zampillare. Come l’acqua del fiume tende a sfociare nel mare così ogni uomo non è in pace finché non trova il mare, Dio, in cui tuffarsi. Le parole dell’evangelista Giovanni, in questo contesto, sono precise e mirate. È la voce del pastore che non fa perdere la strada alle pecore e le conduce sul giusto sentiero. È quella voce che abita in ogni essere umano che anela costantemente a colui che l’ha creato. Nel parlare comune spesso si sente dire: “Sento una voce: chissà che non sia Dio a chiamarmi al sacerdozio, al matrimonio, alla vita contemplativa, missionaria”. Sentire come sinonimo di avvertire, percepire che vi è in atto un inizio di cambiamento. Dio si comunica all’uomo in molteplici modi e per svariate vie; ma il fine e l’obiettivo unico è di renderlo felice e realizzato nella sua volontà di Padre. Ecco perché l’evangelista pone l’accento sul verbo ascoltare. È il verbo della relazione, dell’intimità, dell’incontro, del parlarsi per condividere. Ogni vocazione nasce grazie ad un “ascolto attivo” che consiste nel progressivo coinvolgimento della persona nella storia con Dio. Ma tutto ciò chiede serietà, impegno e costanza. Caratteristiche queste che vanno quotidianamente cercate e desiderate. Serietà come sinonimo di responsabilità verso il dono della vita ricevuto come Grazia; impegno nel senso di partecipazione concreta all’opera di Dio sapendo che egli nulla può senza l’assenso dell’uomo. È il grande fascino del cristianesimo! La costanza indica invece la fedeltà alle piccole cose di ogni giorno paragonabili ai mattoni della casa uniti l’uno sull’altro dal cemento. Nella società della velocità a diversi livelli la nascita, la crescita e la maturazione di ogni vocazione richiede costanza e umiltà. La vocazione non è un qualcosa che viene appiccicato all’uomo come una protesi esterna. Giovanni dice che vocazione è quell’essere del Padre e Figlio “una cosa sola”. Fusione di due originalità. L’impegno pastorale, pertanto, di ogni parrocchia e Chiesa locale sia rivolto proprio a favorire l’educazione all’ascolto in modo particolare del mondo giovanile. “Le mie pecore ascoltano”, dice Giovanni riferito a Gesù: è importante che il sacerdote nella qualità di parroco, viceparroco o coadiutore, religioso e consacrato recuperi lo specifico del suo ministero, ovvero, l’ascolto. Esso rappresenta quel tendere la mano perché l’uomo di oggi sappia ritrovare senso al suo dire e agire. Ma se il sacerdote si lascia prendere dal “tanto fare” giustificato dalle esigenze pastorali sarà lui per primo vittima di quella malattia che porta il nome di aridità spirituale e culturale. È alla vita eterna che bisogna guardare con l’occhio dell’orecchio. Vista e ascolto nella prospettiva di un discernimento autentico ed evangelico generano passi meno incerti e scelte più durature. Giacomo Ruggeri