Is 35,1-6a-8a.10; Gc 5,7-10; Mt 11,2-11
Giovanni Battista, stando in carcere, ascolta le notizie su Gesù. Anche in carcere giunge la buona notizia che è il Vangelo. E, dal carcere, Giovanni sottoposto alla prova e al senso di fallimento e di impotenza manda a chiedere a Gesù: “Sei tu?”. È la domanda fondamentale dell’uomo, perché sul palcoscenico della vita i personaggi che si affacciano alla ribalta proponendosi come liberatori e guaritori sono una folla. Gesù non risponde “Sono Io”, ma dice che è cambiata la storia. I discepoli devono tornare da Giovanni e riferirgli quello che loro stessi hanno udito e visto. È come se dicesse: “Guarda quello che faccio e sarai beato se non ti scandalizzi di me”. È questa la beatitudine che contiene tutte le altre perché guardando in Gesù la povertà, l’afflizione, la mitezza, la fame e sete di giustizia, la misericordia, la purezza, l’opera di pace e la persecuzione subita, possiamo credere che Lui è.
Gesù non dice solo di sé, ma anche chi è Giovanni: non è una canna sbattuta dal vento, né un uomo avvolto in morbide vesti che vive nei palazzi dei re. Giovanni è un profeta, anzi più di un profeta: è colui di cui parlano le Scritture antiche dei nostri padri ebrei, l’angelo/messaggero che prepara la via al Signore. Gesù è più dei patriarchi e dei profeti perché la sua domanda: Sei Tu? lo pone dinanzi al volto di Colui che è e che viene, l’Emmanuele, il Dio con noi. La stessa domanda sarà rivolta a Gesù dal sommo sacerdote, durante il drammatico interrogatorio alla vigilia di Pasqua. La risposta fu ancora profetica, ma l’esito fu diverso: suonò come bestemmia, Caifa si stracciò le vesti e Gesù fu schiaffeggiato, colpito e fatto oggetto di sputi. In entrambe le prigioni quella di Giovanni e quella di Gesù è chiesta la fede per superare lo scandalo della croce. La nuova beatitudine è di coloro che, credendo in Cristo, non si scandalizzano della sua croce e ne incontrano la salvezza.
Il regno dei cieli, punto centrale del Vangelo di Matteo, si manifesta nella debolezza dei “messaggeri”, nella piccolezza dei suoi ministri. Solo l’ascolto profondo è capace di cogliere il mistero che si rivela nell’umiltà dei segni. Gli uomini hanno trattato Giovanni “come hanno voluto”, ma la sua umiliazione non ha spento la forza della sua voce profetica: egli è colui che il Padre ha mandato davanti al Figlio suo, tra i nati di donna non c’è nessuno più grande. Eppure la grandezza di Giovanni Battista non è paragonabile a quella che si vive nel regno di Dio, il tempo nuovo inaugurato da Gesù, dove il più piccolo è più grande del Battista perché non è più sulla soglia, ma sta in casa come figlio di Dio. Giovanni battezza con acqua, ma il più piccolo nel regno di Dio ha ricevuto lo Spirito che gli fa gridare: Abbà, Padre.
In mezzo all’Avvento, a metà strada dal Natale, domina il segno della povertà e della piccolezza: di Giovanni (è in carcere, deve mandare qualcuno per sé, e anche prima ha vissuto nel deserto, non nei palazzi dei potenti, avvolto in morbide vesti, ma con pelli di animali e nutrito di cavallette e miele selvatico), segno dell’Israele fedele che attende il suo Messia; della gente testimone del nuovo Regno: i ciechi, gli storpi, i lebbrosi, i morti; di Gesù stesso che si presenta non come un politico, un liberatore della nazione, ma secondo la profezia di Isaia, come un servo umiliato e sconfitto. Il Regno inizia dal basso, dai piccoli, dalle ferite dell’umanità stanca e senza pastore. Desiderarlo così, questo Natale, è già essere nei pressi della grotta.