Siracide 35,12-14.16-18; 2Timoteo 4,6-8.16-18; Luca 18,9-14 La presunzione di essere giusti ci rende peccatori all’istante. Il noto brano lucano che la liturgia presenta nell’odierna domenica, ultima del mese di ottobre, va letto con profondità e senza facili approssimazioni o conclusioni affrettate, semplicistiche. La tentazione di dire “io sono come il pubblicano e non come il fariseo” già è un andare fuori strada con gravi conseguenze. Il tanto parlare del fariseo contrapposto all’essenziale del pubblicano indica subito una chiave di lettura: non sono le nostre parole a renderci giusti ma è la disponibilità ad accogliere la Parola. Quel salire al tempio che Luca evidenzia sta a significare non solo l’andare fisico in chiesa, ma la modalità di fondo con la quale ci disponiamo verso Dio. Quel salire come sinonimo di orientarsi, disporsi, con quali intenzioni e desideri (che sono poi essi alla fine) a guidare l’agire dell’uomo. L’umiltà che il Vangelo evoca e indica è quella fame e sete di Dio per la propria vita; la non umiltà è il dire “non ho bisogno di te, sono già con lo stomaco pieno, di me stesso!”. Se il cuore è già pieno e occupato dalle nostre parole (fariseo) come ci potrà essere spazio e accoglienza verso quelle di Dio? Dio sa che cosa abita e si agita dentro di noi (pubblicano) e nel momento in cui lo si riconosce si mette in moto la salvezza divina. Nel dialogo con le persone che non partecipano all’Eucaristia domenicale, in quanto la considerano un insieme di persone che nella vita quotidiana non vive ciò che prega, si avverte l’autosufficienza e il bastare a se stessi. “Non rubo, pago le tasse, non faccio del male: perché devo andare in chiesa la domenica?”: espressioni come queste sono molto frequenti e ricorrenti nella vita ordinaria; a tale modo di parlare va risposto sia con le parole che con la vita. Con le parole, facendo notare che il rapporto con Dio non si esaurisce unicamente nella S.Messa della domenica ma è un atteggiamento di fondo nella vita. Con le scelte personali, perché la coerenza trova il suo fondamento nel mettere in pratica. Nei due uomini che salgono al tempio Gesù vuol indicare la relazione umana quale via per aiutarsi a crescere e nel contempo smascherare le proprie iniquità. Si pensi a Caino e Abele, Adamo ed Eva, Giuseppe e i suoi fratelli: sono storie di relazioni che scoprono l’inganno e rivelano la verità delle cose, la verità della persona. In tale relazione Dio abita e compito del credente è di saper riconoscere proprio “in casa propria” i passi di Dio. Nelle relazioni che nascono in parrocchia, nelle associazioni, gruppi, movimenti e istituti consacrati va ricercato il muoversi di Dio, la sua azione che vuole smascherare le nostre falsi mosse. Tornare a casa giustificato vuol dire la piena disponibilità e accoglienza verso Dio perché non smetta mai di essere padre, fratello, guida, signore della propria esistenza. Senza umiltà non può compiersi nessuna opera di Dio, né spirituale, né materiale. Dio Padre doni alla Chiesa che è in Italia, alle 25.000 parrocchie presenti in modo capillare nel territorio, ai monasteri di vita contemplativa, alle famiglie e a coloro che si preparano a divenire tali, alle coppie che convivono e a quelle in crisi, Dio Padre doni sapienza e discernimento. Sono doni da chiedere con umiltà e costanza-tenacia consapevoli che la preghiera non è un dovere da fare, ma un respiro che già abita nell’uomo e attende un cuore in cui battere, degli occhi con cui profetizzare, delle orecchie con le quali percepire i segni di Dio. Signore ti ringrazio che sono come tu mi hai fatto e continui a tessermi; appena starò per dire anch’io “non sono come” poni un freno nella mia lingua e sul mio cuore perché non mi perda proprio mentre mi rivolgo a te. Così sia. Giacomo Ruggeri