Isaia 40,1-5.9-11; Tito 2,11-14; 3,4-7; Luca 3,15-16.21-22 Un popolo che attende è un popolo che non morirà mai. L’attesa si fa cristiana se si apre alla speranza, alla fiducia. Con la festa del Battesimo del Signore si “chiudono”, per così dire, le festività del Natale. La scelta di virgolettare è una chiara indicazione per la vita della Chiesa tutta, dei singoli credenti e ricercatori di Dio a non sentirsi esonerati dagli impegni, dalle responsabilità e dalle scelte che le feste del Natale hanno maturato. L’atteggiamento dell’essere e porsi in attesa libera l’uomo dalla falsa immagine del “non fare nulla perché tanto è tutto pronto o quasi”. Troppe volte si è guardato alla comunità cristiana con questo atteggiamento. Con tale atteggiamento, inoltre, molte relazioni si devono ancora sanare pensando che il primo passo deve essere sempre quello dell’altro, mai il proprio. Il Vangelo di Luca nella domenica del Battesimo del Signore precisa sin dall’inizio che essere battezzati e, oggi, chiedere il battesimo per il proprio figlio chiede il coinvolgimento integrale di tutta la persona: mente, cuore, corpo, anima. L’evangelista presenta la figura di Giovanni il Battista come un uomo che non delude le attese del popolo, ma che si fa freccia per indicare chi sia veramente l’Autore della vita, il Cristo. Nella vita odierna in che misura ci si chiede dove il Signore continua a parlare ed essere presente? È un atto di discernimento quello che il popolo mette in atto, ovvero, un atto del capire e distinguere, non del dividere. Il popolo chiede di capire, di conoscere chi seguire. È un popolo che cerca e va da Giovanni con delle domande. Quali domande, oggi, rendono vivo l’uomo, lo tengono in attesa? Esso, però, cerca risposte in superficie perché sa che la risposta nel profondo chiede impegno, sacrificio, costanza. Nella società odierna vi è un tipo di “battesimo” che si può definire mediatico: si è sempre più immersi nelle notizie che rimbalzano da un capo all’altro del pianeta, notizie lieti che si intersecano con quelle di dolore. Si è immersi quasi a soffocare. E in tutto questo la “notizia buona”, la “bella notizia”, ossia, il Vangelo pare che scompaia, muoia soffocato dal gran vociare e rincorrersi di notizie allarmanti. Ma Giovanni il Battezzatore, colui che ci aiuta ad immergerci nell’acqua che zampilla per la vita eterna, ammonisce: “Ma viene uno che è più forte di me”. È la potenza della vita che si fa strada tra l’impotenza della fragilità del mondo e dell’uomo. Come nelle situazioni più ordinarie della vita dove vi sarà capitato di affermare: “Oramai non c’è più nulla da fare”, proprio lì accade l’inatteso e l’insperato, il “venire di uno”. Nel capitolo terzo l’evangelista Luca indica la preghiera quale criterio per orientarsi e non perdersi nel cammino della vita. Pregare, dunque, più che un fare è un porsi in un atteggiamento interiore dove si vieni presi per mano e condotti a Dio. La preghiera sinonimo di una strada percorsa con Dio, verso di Lui, passando per i sentieri degli uomini di ogni tempo. Ecco perché Gesù, afferma l’evangelista, “stava in preghiera” quasi a voler indicare la priorità che deve essere sempre presente in ogni azione che si compie. Stare in preghiera non richiama solamente l’atteggiamento fisico del fermarsi, ma soprattutto la fermezza interiore che ti fa dire “chi mi separerà dall’amore di Dio?”. Nulla e niente. Lo Spirito Santo, troppo poco invocato, è quel saggio intagliatore dell’atteggiamento interiore che fa della preghiera, non un tempo che da dedicare, ma uno stile di essere. Giacomo Ruggeri