Domenica 10 settembre

Isaia 35,4-7a; Giacomo 2,1-5; Marco 7,31-37 Non è sempre facile aprirsi verso gli altri. Spesso, a nostra difesa, facciamo scendere delle saracinesche che ci impediscono di fare attenzione alle difficoltà del nostro prossimo. Il Vangelo ci presenta Gesù che ordina al sordomuto di aprirsi, per ridargli l’udito e la parola. Tiro e Sidone. Gesù è di ritorno dal territorio della Decapoli, da Tiro e Sidone, che in questi ultimi giorni sono città diventate tristemente famose per la guerra in Medio Oriente. Possiamo cogliere l’occasione per rispondere, anche noi, ai ripetuti appelli del Papa alla pace, giusta e duratura. Benedetto XVI ha ricordato però che la pace è un dono da impetrare con la preghiera. Questo rapporto pace-preghiera non è forse di immediata comprensione.

Non dipende forse dagli uomini fare la pace? Che c’entra allora la nostra preghiera? Forse dimentichiamo con troppa facilità che i cuori degli uomini sono nelle mani di Dio, il quale ci lascia liberi di determinarci per il bene o per il male, ma può sempre ispirarci buone intenzioni e fare in modo che gli uomini, pur liberamente, si determino al bene. Certo la Terra Santa, proprio la terra di Gesù, ha già pagato un troppo forte tributo di lacrime e di morte. Dovrebbe essere giunto il tempo in cui i potenti della terra si decidano a far tacere le armi e a costruire la pace. Non è questo soltanto un augurio, ma una speranza poiché, come recita il Salmo di oggi, “il Signore ama i giusti, il Signore protegge lo straniero. Egli sostiene l’orfano e la vedova, ma sconvolge le vie degli empi” Emise un sospiro. Marco, l’evangelista, ci fornisce tutti i particolari di questa guarigione. Gesù “portando in disparte il sordomuto, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e disse: Effatà, cioè Apriti. E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della lingua e parlava correttamente”.

Come mai questa abbondanza di particolari? I primi cristiani ne furono colpiti al punto di introdurne alcuni nell’antica liturgia battesimale. Gesù aveva bisogno di compiere tutti quei gesti per guarire il povero malato? Certamente no, ma vuole esprimere, attraverso quei segni, la sua volontà di ridare l’udito e la parola. Un intervento anche simbolico, poiché quel sordomuto rappresenta l’umanità che il Figlio di Dio è venuto a guarire. Egli ha ridato all’uomo la capacità di ascoltare la Parola di Dio e di rispondere con la fede e con la preghiera. Prima di pronunciare la parola “Apriti”, Gesù emise un sospiro, quasi a significare la sua partecipazione, dolorosa e profonda, al male del sordomuto. Venuto come uomo tra gli uomini, il Figlio di Dio condivide lo stato penoso di una umanità che si è staccata da Dio e non può, da sola, rifare se stessa. Quel sospiro indica uno stato d’animo che si placherà sulla croce, con il compiersi della redenzione. Non ditelo a nessuno. La parola del Cristo è determinate, è efficace, le frontiere del dolore e della malattia stanno per incrinarsi. La finale del racconto evoca poi, ancora una volta, il cosiddetto “segreto messianico”, tipico della teologia di Marco. Esso ha una funzione: quella di condurre il seguace di Gesù a cogliere, progressivamente, il mistero profondo che si cela nell’uomo Gesù. Il suo scopo è perciò quello di esaurirsi lentamente, quanto più gli occhi del fedele si aprono sulla vera realtà del Cristo. Il segreto è destinato a finire nella proclamazione della folla: “Ha fatto bene tutte le cose: fa udire i sordi e fa parlare i muti”.

Essa è un’anticipazione della confessione piena e definitiva della comunità cristiana, impersonata dal centurione pagano ai piedi della croce, con le sue parole: “Veramente costui è figlio di Dio”. Per giungere alla fede occorre fare un cammino. Non è sufficiente un po’ di catechismo appreso in parrocchia. Può essere solo il punto di partenza a cui far seguire poi, da adulti, tutto il percorso per giungerwe a una fede, convinta e matura. Altrimenti si corre il rischio di restare con una fede infantile, fragile, incostante e vulnerabile a tutte le insidie del nostro tempo.

Carlo Caviglione